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https://youtu.be/hpcPyzVJXCQ
I FURBETTI DELL'EQUOSOLIDALE
Quando si tratta di cibo noi italiani ci informiamo su ciò che stiamo comprando; leggiamo le etichette e riconosciamo il grado di genuinità di un prodotto. C’è chi preferisce cibo stagionale oppure biologico. E c’è chi va oltre, scegliendo l’Equo e Solidale, convinto che le nostre abitudini di consumo non debbano essere legate ad alcun tipo di sfruttamento. Ma la formula Equo e Solidale cos’è? E i prodotti, sono davvero “etici”? Molti dei prodotti che consumiamo quotidianamente provengono dal sud del mondo: banane, caffè, cacao, zucchero di canna, farine e così via. Le aziende multinazionali hanno compreso i vantaggi di rifornirsi da questi paesi sfruttando le risorse localmente disponibili. La distribuzione stabilisce le modalità di vendita, prezzo al produttore e prezzo al consumo, ed ovviamente lì sta il suo guadagno. Nel sistema Equo e Solidale, una filiera più corta mette in contatto il produttore con le botteghe di vendita, la differenza tra prezzo pagato alla produzione e prezzo pagato al consumo è più contenuta. Tuttavia i prodotti del sistema Equo e Solidale costano di più rispetto a quelli del supermercato perché si vuole creare sviluppo sociale nelle cooperative di produzione. Poiché il senso di colpa dei consumatori ricchi nei confronti di chi sta peggio grazie ad una martellante campagna pubblicitaria è tenuto desto, i prodotti Equo e Solidali hanno ottenuto un certo successo. Molte aziende (vedi la Coop), fiutando un potenziale business, hanno creato delle linee di prodotto definite tali. Il mondo della bontà ha alzato un grido di protesta ed ha rilanciato: sulle confezioni deve esserci il marchio di certificazione Fair Trade.
Come va la rivoluzione del fair trade, il commercio equo e solidale? Andava bene. Un giro d'affari da 6 mld$. Un tasso di crescita del 27% annuo. Oltre 1 milione e 150mila contadini dei paesi più poveri strappati alla “miseria”. Pensate alle piantagioni del Nicaragua e del Burkina Faso. È qui che la rivoluzione dell'equo e solidale prometteva di riequilibrare la bilancia del commercio dalla parte dei contadini sottopagati. Ma allora perché si sono messi a litigare come i vecchi capitalisti di una volta? Fair Trade Usa è uscita da Fair Trade International: un'amputazione. Con un giro d'affari di 2 mld$ gli americani costituivano un terzo di quel mercato. Per l'organizzazione è un colpo che rischia di essere fatale. Fair Trade Usa adesso etichetta i prodotti equi col proprio marchio. Il presidente Paul Rice non vuole più restare in un movimento “piccolo e puro”, ma vuole il commercio equo per tutti. La scissione americana è stata la prima scossa del terremoto. Infatti anche in Fair Trade International c’è maretta. Da una parte uno dei due fondatori del movimento, Nico Roozen, spinge per l'apertura al mercato e il coinvolgimento sempre maggiore delle multinazionali. Dall'altra il cofondatore, Frans van der Hoff, sostiene che così facendo si tradisce il movimento. Se si dà l'etichetta di fair trade anche alle grandi piantagioni che accettano di sottostare alle regole del fair trade, si costringere i padroni ad applicare le regole ai coltivatori delle grandi piantagioni che sono i veri ultimi del mondo. Ma se si abbassa la soglia degli ingredienti necessari per etichettare un prodotto "equo" dal 20 al 10 % il meccanismo permette di far entrare nel mercato colossi come Starbucks, Green Mountain, WalMart, Coop e Conad. Ovviamente se entrano loro, le bottegucce delle nazioni ricche dal sapore hippy old fashion hanno i giorni contati. Qualche poveretto da noi ci campava, male, ma ci campava. Qualche politico ci faceva la cresta elettorale sopra. Qualche acquirente si illudeva persino di fare del bene mangiando più cioccolato e bevendo più caffè. E adesso?
Se navigate su www.fairtrade.org.uk, sito dell'organizzazione leader del commercio equo e solidale, scoprirete che un’economia diversa non è solo possibile, ma già c'è. La galleria fotografica del sito, seconda solo al National Geographic, mostra un’Africa, un’Asia e un Sud America come non le avete mai viste. Colori smaglianti, piantagioni modello, volti sorridenti, cortili lindi, casette colorate, signore in sari che raccolgono foglioline di thè come fossero orchidee, contadini felici. Chissà perché emigrano, uno si chiede.
Se l’è chiesto anche il Financial Times (sapete, il giornale vangelo quando attaccava Berlusconi, ma caduto in disgrazia dopo le inchieste sull’equo-solidale?) ed ha scoperto che l'ottimo caffè etico che ormai si vende anche nelle grandi catene multinazionali redente, come Mc Donald e Starbucks, sa un tantino di bruciato. Il reporter Hal Weitzman l’ha assaggiato in Perù, principale fornitore del caffè Fairtrade. Primo: i lavoratori impiegati dalle associazioni che aderiscono alla fondazione sono pagati al di sotto del minimo legale. Secondo: caffè di origine ignota viene contrabbandato per certificato e venduto come tale. Terzo: una parte del caffè «equo e solidale» cresce in aree protette, come le foreste pluviali. Alla faccia dell'ambiente. Le immagini satellitari non mentono.
Ma come cavolo avviene allora il processo di certificazione usato da Fairtrade? Naturalmente nessun certificatore può garantire che sarà comprato il 100% della produzione di una cooperativa, quindi come è possibile assicurare che ogni confezione soddisferà gli standard? Nessuno infatti pretende questo. Ma perché allora vantarsi eticamente e chiamare ciò che si vende «politicamente corretto»? Lo stile pubblicitario ed il merchandise ricalcano né più né meno quello di qualsiasi prodotto o brand. Zucchero, cioccolato, banane, miele, riso, fiori, cosmetici, birra, vino, palloni da calcio, bananone di plastica (al modico prezzo di 10 $) tutto va ben tutto fa brodo. Sotto il marchio «equo e solidale» un numero crescente di acquirenti occidentali si sciacqua la coscienza e non si sente troppo in colpa di essere un bieco consumatore affamatore di poveracci già sull'orlo della miseria. Persino certi governi fanno a gara nel favorire imprese tanto virtuose con sgravi fiscali e agevolazioni assortite.
Certo l’umiliazione non basta. Bisogna aprire anche il portafoglio. I prodotti equi sono per ricchi, costano più dei loro omologhi «scorretti». La vulgata militante risponde che sono più onerosi all'origine, perché non nascono da uno sfruttamento. Ma se all'origine costano addirittura meno, e sfruttano lo stesso, compresa la buona fede di chi acquista, allora si chiama truffa.
Ad esempio, quattro delle cinque piccole imprese certificate Fairtrade visitate dall'inviato del Financial Times in Perù, pagano ai lavoranti a giornata 10 sol, circa tre dollari (solo una arriva a 12) per un orario no-stop dalle 6 del mattino alle 16,30 del pomeriggio. Là dove la tariffa minima è di 11,20 sol.
Da quando tutti vogliono il «caffè etico» il sistema è impazzito e per soddisfare la domanda si fa passare per «etico» caffè qualsiasi comprato chissà dove da chissà chi.
Se l’è chiesto anche il Financial Times (sapete, il giornale vangelo quando attaccava Berlusconi, ma caduto in disgrazia dopo le inchieste sull’equo-solidale?) ed ha scoperto che l'ottimo caffè etico che ormai si vende anche nelle grandi catene multinazionali redente, come Mc Donald e Starbucks, sa un tantino di bruciato. Il reporter Hal Weitzman l’ha assaggiato in Perù, principale fornitore del caffè Fairtrade. Primo: i lavoratori impiegati dalle associazioni che aderiscono alla fondazione sono pagati al di sotto del minimo legale. Secondo: caffè di origine ignota viene contrabbandato per certificato e venduto come tale. Terzo: una parte del caffè «equo e solidale» cresce in aree protette, come le foreste pluviali. Alla faccia dell'ambiente. Le immagini satellitari non mentono.
Ma come cavolo avviene allora il processo di certificazione usato da Fairtrade? Naturalmente nessun certificatore può garantire che sarà comprato il 100% della produzione di una cooperativa, quindi come è possibile assicurare che ogni confezione soddisferà gli standard? Nessuno infatti pretende questo. Ma perché allora vantarsi eticamente e chiamare ciò che si vende «politicamente corretto»? Lo stile pubblicitario ed il merchandise ricalcano né più né meno quello di qualsiasi prodotto o brand. Zucchero, cioccolato, banane, miele, riso, fiori, cosmetici, birra, vino, palloni da calcio, bananone di plastica (al modico prezzo di 10 $) tutto va ben tutto fa brodo. Sotto il marchio «equo e solidale» un numero crescente di acquirenti occidentali si sciacqua la coscienza e non si sente troppo in colpa di essere un bieco consumatore affamatore di poveracci già sull'orlo della miseria. Persino certi governi fanno a gara nel favorire imprese tanto virtuose con sgravi fiscali e agevolazioni assortite.
Certo l’umiliazione non basta. Bisogna aprire anche il portafoglio. I prodotti equi sono per ricchi, costano più dei loro omologhi «scorretti». La vulgata militante risponde che sono più onerosi all'origine, perché non nascono da uno sfruttamento. Ma se all'origine costano addirittura meno, e sfruttano lo stesso, compresa la buona fede di chi acquista, allora si chiama truffa.
Ad esempio, quattro delle cinque piccole imprese certificate Fairtrade visitate dall'inviato del Financial Times in Perù, pagano ai lavoranti a giornata 10 sol, circa tre dollari (solo una arriva a 12) per un orario no-stop dalle 6 del mattino alle 16,30 del pomeriggio. Là dove la tariffa minima è di 11,20 sol.
Da quando tutti vogliono il «caffè etico» il sistema è impazzito e per soddisfare la domanda si fa passare per «etico» caffè qualsiasi comprato chissà dove da chissà chi.
Ma ‘cca nisciuno è fesso.
https://youtu.be/HfNehPSxy6E
Se produco 15 ton/anno di zucchero che costa 100, e lo vendo con un margine di 10 per ogni ton, guadagnerò al massimo 150. Se converto una coltivazione di barbabietola in canna da zucchero, per arrivare alla stessa quantità di zucchero ci debbano lavorare cinque volte tante persone. Se il guadagnavo, diciamo 20.000 € l’anno, il mio reddito calerebbe ai 4.000 €, poiché lo dovrò dividere con altri 4 cioè piomberemmo tutti nella miseria più nera. Viceversa convertendo una piantagione di zucchero di canna in barbabietole il reddito quintuplicherebbe. Inoltre, mentre lo zucchero di canna viene trasportato spessissimo in forma liquida e poi lavorato altrove, lo zucchero di barbabietola necessita di lavorazione industriale. Occorrono ingegneri chimici, meccanici, elettronici, ecc.
Il primo passo, se si vuole veramente lo sviluppo dei paesi poveri, consiste nel passaggio da produzioni a basso reddito, verso produzioni ad alto reddito. Comprando le cose che producono oggi vuol dire mantenerli nella miseria perché una produzione a basso reddito produce solo miseria.
Il ComES non va compra microchip o software in Brasile, ma compra caffè, nemmeno torrefatto e canna da zucchero. Due delle produzioni a più basso tasso di reddito del mondo. Si otterrà che sempre più gente sarà impegnata in un settore economico senza riscatto, perchè i pochi soldi che si guadagnano con tale produzione vanno divisi in troppi. Inoltre il valore aggiunto è basso. Se per un prodotto molto raffinato sono necessari 10-15 passaggi, il risultato è una catena di distribuzione, di trasporti e di servizi che non solo ne alza il prezzo, ma ne alza il reddito. Per produrre un microprocessore si produce più PIL (e quindi si sfama più gente) rispetto a produrre un sasso dipinto.
I paesi che commerciano cose più raffinate e lavorate vedono salire la propria bilancia commerciale, è questa la produzione che sfama più gente.
In un negozio del ComES c’è merce volutamente pochissimo lavorata, viene ostentata la mancanza completa di lavorazione industriale, quasi fosse un pregio, come se il prodotto più primitivo fosse quello che maggiormente rispetta e arricchisce queste popolazioni. Ma non è assolutamente vero, se comprassimo lo zucchero di canna in sacchi, dovremmo almeno pagare un tizio che lo mette dentro i sacchi. Magari prima o poi lo farà con una macchina, e qualcun la dovrà manutenere. È così che si produce sviluppo. Invece no, lo zucchero viene esportato in forma liquida, perchè è più semplice ficcarlo dentro una nave cisterna: la follia pura. Se si iniziasse a lavorare quello zucchero, nascerebbero gli operai, i cui figli potrebbe studiare.
Alimentare la cultura secondo cui il cioccolato grezzo è migliore perché aiuta di più i contadini che lo coltivano, è errato. Comprare vestiti di lana grezza, non fa che condannare una parte del pianeta già poco produttiva a vivacchiare su acquisti che sanno più di elemosina che di vero commercio. Se il ComES volesse lo sviluppo, dovrebbe iniziare a scegliere produzioni più redditizie, o almeno a chiedere prodotti sempre più raffinati, confezionati e semilavorati, per formare le prime figure professionali a reddito più alto. Ma se ci si ostina a preferire, per scelta ideologica, il prodotto meno lavorato, non si farà altro che rinforzare la gabbia di miseria nella quale questi paesi vivono. Il ComES è complice di un mercato che produce solo poveri, uno status quo che produce miseria. In altre parole si tratta, consapevolmente o meno, di una nuova forma di neocolonialismo.
Il primo passo, se si vuole veramente lo sviluppo dei paesi poveri, consiste nel passaggio da produzioni a basso reddito, verso produzioni ad alto reddito. Comprando le cose che producono oggi vuol dire mantenerli nella miseria perché una produzione a basso reddito produce solo miseria.
Il ComES non va compra microchip o software in Brasile, ma compra caffè, nemmeno torrefatto e canna da zucchero. Due delle produzioni a più basso tasso di reddito del mondo. Si otterrà che sempre più gente sarà impegnata in un settore economico senza riscatto, perchè i pochi soldi che si guadagnano con tale produzione vanno divisi in troppi. Inoltre il valore aggiunto è basso. Se per un prodotto molto raffinato sono necessari 10-15 passaggi, il risultato è una catena di distribuzione, di trasporti e di servizi che non solo ne alza il prezzo, ma ne alza il reddito. Per produrre un microprocessore si produce più PIL (e quindi si sfama più gente) rispetto a produrre un sasso dipinto.
I paesi che commerciano cose più raffinate e lavorate vedono salire la propria bilancia commerciale, è questa la produzione che sfama più gente.
In un negozio del ComES c’è merce volutamente pochissimo lavorata, viene ostentata la mancanza completa di lavorazione industriale, quasi fosse un pregio, come se il prodotto più primitivo fosse quello che maggiormente rispetta e arricchisce queste popolazioni. Ma non è assolutamente vero, se comprassimo lo zucchero di canna in sacchi, dovremmo almeno pagare un tizio che lo mette dentro i sacchi. Magari prima o poi lo farà con una macchina, e qualcun la dovrà manutenere. È così che si produce sviluppo. Invece no, lo zucchero viene esportato in forma liquida, perchè è più semplice ficcarlo dentro una nave cisterna: la follia pura. Se si iniziasse a lavorare quello zucchero, nascerebbero gli operai, i cui figli potrebbe studiare.
Alimentare la cultura secondo cui il cioccolato grezzo è migliore perché aiuta di più i contadini che lo coltivano, è errato. Comprare vestiti di lana grezza, non fa che condannare una parte del pianeta già poco produttiva a vivacchiare su acquisti che sanno più di elemosina che di vero commercio. Se il ComES volesse lo sviluppo, dovrebbe iniziare a scegliere produzioni più redditizie, o almeno a chiedere prodotti sempre più raffinati, confezionati e semilavorati, per formare le prime figure professionali a reddito più alto. Ma se ci si ostina a preferire, per scelta ideologica, il prodotto meno lavorato, non si farà altro che rinforzare la gabbia di miseria nella quale questi paesi vivono. Il ComES è complice di un mercato che produce solo poveri, uno status quo che produce miseria. In altre parole si tratta, consapevolmente o meno, di una nuova forma di neocolonialismo.
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