https://youtu.be/7vfmUYM0yDk
Tanto per cambiare il problema dell’Italia sono i giovani. Loro che, grazie alla scuola inutile in cui li abbiamo fatti studiare, nulla sanno di fascismo o comunismo e che, grazie alla artificiale mancanza di lavoro che abbiamo creato permettendo immigrazione e delocalizzazione, hanno accettato di fare i mantenuti a vita, con i soldi presi dalla borsetta di mammà o da uno sbandierato reddito di cittadinanza incapace di trovar loro un impiego che li affranchi dall'essere mantenuti..
Per ora, nel nome di relitti di ideologie, se le danno di santa ragione. Un insano esercizio fisico in assenza di un sano esercizio cerebrale.
Loro che nulla sanno degli Anni di Piombo o della Repubblica di Weimar, giocano inconsapevoli a farne il verso, nel nome di orecchiate ideologie che credevamo sepolte dalla storia.
E così i giovani sono diventati l’ultima sfaccettatura di un problema di ordine pubblico preelettorale.
Per gli intellettuali da talk show è tutto grasso che cola. Parlano di “fascismi del Terzo Millennio”. Sarebbero quelle patetiche sfilate paramilitari fatte da nerborute matrone e muscolosi seguaci delle arti marziali sotto lo striscione di Casa Pound, una formazione politica che prende il nome da un poeta straordinario e complessissimo, di cui i militanti non hanno letto mai una riga.
Parlano pure di “antifascismo militante” usato come foglia di fico per coprire quella umanità borderline che vive di spaccio e di piccole attività pseudo - artistiche nei centri sociali, che si professa, alternativamente, marxista rivoluzionaria o anarchico insurrezionalista, anche se è incapace di decifrare una sola sillaba di Marx o di Toni Negri.
Non sapendo bene con chi prendersela, si sente straparlare di degenerazione ampiamente prevista (da chi? quando? come? perché?) dello spietato “turbocapitalismo”, con a destra proletari disoccupati (perché delle loro professionalità manuali la società non sa più cosa farsene), e a sinistra figli di una borghesia decaduta (impoverita da un tartassamento fiscale inaudito giustificato eticamente con la doverosa redistribuzione dei redditi), una “classe disagiata”, di giovani che hanno studiato per diventare intellettuali, professori, giornalisti, le cui aspirazioni si scontrano con un mercato del lavoro intellettuale che di loro non ha e non avrà mai alcun bisogno.
Questi giovani usano le bandiere non tanto per sfilarci dietro orgogliosi dell'ideologia che individua, ma per usare le aste come armi per menanrsi, sono solo la punta muscolare (e paradossalmente socialmente meno pericolosa) di un iceberg giovanile che, per ora, si rifugia nell'astensione dalla vita politica e nel risentimento intimista più autodistruttivo. Non a caso depressione ed anoressia sono ormai malattie anche e soprattutto dei giovani.
Cosa farà questa massa di “inerti sociali” che tra dieci anni, morti i nonni con le cui pensioni vivevano e giunti i genitori alla pensione da fame stabilita dalle nuove regole, volenti o nolenti saranno chiamati a prendere in mano le sorti della propria vita per unire pranzo e cena quotidiani?
Si limiteranno alla dimensione verbale dei vaffa? Prenderanno eternamente per buono il manicheismo della riduzione della complessità sociale a un unico nemico: il complotto capitalista/eurocratico/bancario/migrazionista?
Quando cesseranno di farsi la guerra tra loro e rivolgeranno, infine, la loro attenzione verso la maggioranza silenziosa degli anziani che non riuscirà più a mantenerli per continuare a tenerli ai margini? Una volta svendute le proprietà immobiliari che i nonni, dopo una vita di sacrifici, erano riuscite a comprare, di cosa camperanno? Finite le risorse del welfare italiano (il più esoso del mondo) non potranno più fare i badanti sottopagati grazie agli assegni di accompagnamento.
Allora sì che scoppierà la rivoluzione per il pane. Un po' meno per le rose...
La percentuale endemica dei giovani disoccupati sta al 40%1 - Disoccupazione giovanile
Secondo la società di consulenza
McKinsey la componente strutturale della disoccupazione giovanile italiana, cioè
quella che non dipende dal ciclo economico e che rimane invariata pure quando
le cose vanno bene, è pari al 40%. Cause? Troppe tasse per le imprese, troppi contributi
da pagare, scarsa corrispondenza tra ciò che si studia all’università e ciò che
serve al mercato del lavoro, lunghissima transizione tra scuola e lavoro.
2 – Immatricolazioni
universitarie
Secondo il MIUR tra il 2000 e il
2015 le immatricolazioni universitarie sono calate di 65mila unità. Quello
italiano è un trend che non trova corrispondenza in altre nazioni. Solo da noi
il sapere è qualcosa di inutile. Cause? Tasse universitarie alte, modesta
possibilità di successo scolastico universitario in facoltà performanti dal
punto di vista dell’impiego futuro dovuta ad una preparazione di scuola
superiore insufficiente, scarso recupero monetario in caso di assunzione
rispetto all’investimento di tempo e denaro fatto.
3 – Correlazione studi – lavoro
Il 35% dei lavoratori italiani è
impiegato in un settore non correlato ai propri studi ed il 12% sono
sovraqualificati rispetto alla mansione che svolgono. Un enorme fattore di
frustrazione, causa prima per comprare un biglietto di sola andata per un Paese
straniero. O per decidere, di fronte a questa prospettiva, di smettere di
studiare.
4 – Sottoutilizzazione del
capitale umano femminile
L’Eurofund ha calcolato che è
pari a 88 mld €/anno la sottoutilizzazione del capitale umano femminile in
Italia. Il più alto in Europa. Risultiamo poco capaci di valorizzarlo al meglio
nel nostro tessuto produttivo, nè a livello di mansioni, né in relazione allo
stipendio.
5 – Investimenti esteri in Italia
Il numero di investimenti diretti
esteri realizzati in Italia nel 2016 è pari a 89. In Germania sono stati
1063 nel medesimo anno. Un bell’afflusso di imprese estere che portino
tecnologia, innovazione, domanda di saperi qualificati è proprio quello che ci
manca, in Italia, per trattenere i nostri cervelli in fuga e per mettere a
valore il meglio del capitale umano che abbiamo formato. Che fare per
attirarli? Fisco migliore, giustizia più veloce, ricerca universitaria di base
meglio qualificata, burocrazia snella ed efficiente.
6 – Età dei dipendenti pubblici
in Italia
L’età media dei dipendenti della
pubblica amministrazione italiana, è 48,1 anni. Causato dal blocco del
turnover, impedisce ogni velleità di innovare la macchina pubblica con un po’
di giovani e brillanti esperti delle tecnologie digitali.
7 – Reddito garantito per chi
perde l'occupazione
Il reddito minimo garantito
mensile che prende un lavoratore che ha perso la propria occupazione in
Francia, Germania, Belgio, Austria, Regno Unito, Irlanda, sono 1300 € circa,
assieme alle politiche attive e di formazione per aiutarlo a trovarne uno
nuovo. Sono tutti Paesi che hanno un welfare meno costoso del nostro e un
debito pubblico più basso del nostro. Sono tutti Paesi in cui non ci sono
lavoratori ipergarantiti e lavoratori senza alcuna tutela, senza buchi nello
Stato sociale, in cui ciascuno è tutelato. Sono tutti Paesi che hanno
rispettato la direttiva europea del 1992 che imponeva una misura universale di
sostegno al reddito agli Stati membri. Gli unici assenti siamo noi e la Grecia.
Naturalmente per l’Italia è una cifra fantascientifica. 1.300 €/mese non li
guadagnano la maggior parte degli occupati.
Precari: ecco l’identikit
La CGIA di Mestre ripropone l’identikit del precario italiano. In sintesi: lo stipendio è mediamente di 836 euro al mese, solo il 15% ha una laurea, la Pubblica amministrazione è il suo principale datore di lavoro e nella maggioranza dei casi lavora nel Mezzogiorno (35,18% del totale). L’esercito dei lavoratori atipici è costituito da:- i dipendenti a temine involontari;
- i dipendenti part time involontari;
- i collaboratori che presentano contemporaneamente 3 vincoli di subordinazione: monocommittenza, utilizzo dei mezzi dell’azienda e imposizione dell’orario di lavoro;
- i liberi professionisti e lavoratori in proprio (le cosiddette Partite Iva) che presentano in contemporanea i 3 vincoli di subordinazione descritti nel punto precedente.
In numero assoluto questi lavoratori senza un contratto fisso sono 3.315.580 unità, e la retribuzione netta mensile media tra i giovani con meno di 34 anni è di 836 euro. Questa retribuzione sale a 927 euro mensili per i maschi e scende a 759 euro per le donne. Dalla CGIA tengono a precisare che questi importi escludono altre mensilità (tredicesima, quattordicesima, etc.) e le voci accessorie percepite regolarmente tutti i mesi, come ad esempio i premi di produttività, le indennità per missioni, etc.Per quanto riguarda il titolo di studio, quasi uno su due (per l’esattezza il 46% del totale) ha un diploma di scuola media superiore, il 39% circa ha concluso il percorso scolastico con il conseguimento della licenza media e solo il 15,1% è in possesso di una laurea.Dove lavorano? Come dicevamo più sopra, la più alta concentrazione di lavoratori precari italiani è nel Pubblico impiego. Infatti, nella scuola e nella sanità ne troviamo 514.814, nei servizi pubblici e in quelli sociali 477.299. Se includiamo anche i 119.000 circa che sono occupati direttamente nella Pubblica amministrazione (Stato, Regioni, Enti locali, etc.), il 34% del totale dei precari italiani è alle dipendenze del Pubblico (praticamente uno su tre). Gli altri settori che registrano una forte presenza di questi lavoratori atipici sono il commercio (436.842), i servizi alle imprese (414.672) e gli alberghi ed i ristoranti (337.379).A livello territoriale è il Sud che ne conta il numero maggiore. Se oltre 1.108.000 precari lavorano nel Mezzogiorno (pari al 35,18% del totale), le realtà più coinvolte, prendendo come riferimento l’incidenza percentuale di questi lavoratori sul totale degli occupati a livello regionale, sono la Calabria (21,2%), la Sardegna (20,4%), la Sicilia (19,9%) e la Puglia (19,8%).“Su un totale di oltre 3.315.000 lavoratori senza un contratto di lavoro stabile – esordisce Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA di Mestre – quasi 1.289.000, pari al 38,9% del totale, non ha proseguito gli studi dopo aver terminato la scuola dell’obbligo. Questi precari con basso titolo di studio sono in questa fase di crisi economica quelli più a rischio. Nella stragrande maggioranza dei casi svolgono mansioni molto pesanti da un punto di vista fisico e sono occupati soprattutto nel settore alberghiero, in quello della ristorazione e nell’agricoltura. Per questo ritengo che i percorsi formativi debbano essere posti al centro di un seria riflessione tra i politici e gli addetti ai lavori, affinché vengano si individuino delle risposte in grado di avvicinare in maniera più costruttiva l’attività formativa e il mondo delle imprese.”Lavoratori precari per regione (1-1-2011) Regione Valore assoluto Incidenza % sul totale occupati regionale Calabria 121.498 21,2% Sardegna 121.082 20,4% Sicilia 286.011 19,9% Puglia 241.622 19,8% Umbria 60.115 16,4% Basilicata 28.742 15,5% Lazio 347.806 15,4% Toscana 224.949 14,5% Abruzzo 71.394 14,5% Liguria 91.661 14,4% Campania 223.329 14,1% Molise 14.809 13,7% Emilia 258.747 13,4% Marche 87.474 13,3% Piemonte 251.547 13,2% Friuli 66.552 13,1% Trentino 59.718 12,7% Lombardia 524.443 12,3% Veneto 234.080 11,1% ITALIA 3.315.580 14,5%
Lavoratori precari per titolo di studio (1-1-2011) Titolo di studio Valore assoluto In % sul totale Diploma media superiore 1.525.978 46,0% Nessun titolo, lic. elementare o lic. media 1.288.772 38,9% Laurea 464.728 14,0% Diploma post laurea 36.102 1,1% TOTALE 3.315.580 100,0%
Retribuzioni medie (in euro) percepite dai lavoratori dipendenti precari*in Italia nel 2010 – lavoratori dai 15 ai 34 anni
15 – 34 anni
Maschi Femmine Totale Precari 927 759 836
* Dati disponibili per i soli lavoratori dipendenti a tempo determinato involontari ed i lavoratori dipendenti part-time involontari. La retribuzione mensile media netta percepita esclude altre mensilità (tredicesima, quattordicesima, ecc.) e voci accessorie non percepite regolarmente tutti i mesi (premi di produttività annuali, arretrati, indennità per missioni, straordinari non abituali, ecc.)Lavoratori precari per settore (1-1-2011)
Valore assoluto Incidenza % sul totale occupati del settore Alberghi e ristoranti 337.379 28,3% Altri servizi pubblici e sociali 477.299 27,1% Agricoltura, caccia e pesca 232.245 26,1% Servizi alle imprese 414.672 16,9% Istruzione, sanità 514.814 16,2% Commercio 436.842 12,9% Trasporti e comunicazioni 133.522 10,8% Costruzioni 192.710 10,0% Manifattura 380.779 8,7% Pubblica amministrazione 118.978 8,4% Intermediazione monetaria 64.030 7,7% Energia 12.539 6,8%
TOTALE 3.315.580 14,5%Lavoratori precari per macro area (1-1-2011)
Valore assoluto In % sul totale Nordovest NordestCentroSud 867.651619.098720.3451.108.487 24,9218,1921,6835,18 TOTALE 3.315.580 100,0
Elaborazioni Ufficio Studi CGIA Mestre su dati ISTAT
I dati fanno riflettere. Ma uno soprattutto ci ha colpito: 1 precario su 3 è alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e la possibilità di una sua stabilizzazione occupazionale é esigua. Tra l'altro qui sono concentrati gli occupati con livelli di istruzione più elevati. Cioè i figli della cosiddetta scuola inutIl bancario, l’autista e il militare sono le professioni che garantiscono le buste paga più pesanti. Mediamente un under 30 percepisce 977 euro al mese: la quasi totalità dei giovani beneficerà degli 80 euro in più in busta paga previsti dal Governo Renzi. Il bancario, l’autista di macchine per il movimento terra e il militare dell’esercito sono le professioni che garantiscono ai giovani con meno di 30 anni le buste paga più pesanti. Per contro, la baby sitter, il massaggiatore e la colf sono i mestieri dove gli occupati percepiscono gli stipendi più “leggeri”. La retribuzione media dei dipendenti under 30 è molto bassa: 977 euro al mese.L’analisi, condotta dall’Ufficio studi della CGIA, ha preso in esame i dati relativi alla retribuzione mensile media dei lavoratori dipendenti con meno di 30 anni occupati in Italia nel 2013. Al top di questa particolare graduatoria figurano i bancari e gli impiegati nelle assicurazioni: lo stipendio mensile è di 1.426 euro. Seguono gli autisti di macchine per il movimento terra e dei muletti, con una retribuzione di 1.230 euro, mentre al terzo posto troviamo il personale dell’esercito che porta a casa 1.207 euro netti al mese.“Negli anni ’70 e ’80 – ricorda Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA – è stato il sogno di intere generazioni di giovani. Successivamente, questo impiego ha perso un po’ di appeal anche perché sono venuti meno molti benefit. Ora, guardando il livello retributivo medio, un posto di lavoro in banca è diventato il più attrattivo dal punto di vista economico, anche se rispetto ad un tempo perfino gli istituti di credito non sono più in grado di garantire il posto fisso a vita. Oltre a ciò – conclude Bortolussi – le professioni di carattere tecnico/professionale ad alta specializzazione hanno scalato molte posizioni in classifica. Nonostante la crisi e il forte aumento della disoccupazione giovanile, non sono poche le imprese che ancora adesso faticano a trovare del personale con un sufficiente livello di preparazione”.Per contro, gli addetti alle pulizie, con 721 euro, le baby sitter, con 717 euro, i massaggiatori/estetisti, con 705 euro, e le colf, con 559 euro, sono i mestieri dove i livelli retributivi sono i più bassi.“Va precisato – conclude Bortolussi – che in queste attività sono molto diffusi i contratti part time e l’apprendistato che contribuiscono notevolmente ad abbassare la media retributiva”.Da un punto di vista metodologico, fa sapere la CGIA, i dati sulla retribuzione media mensile sono riferiti esclusivamente ai lavoratori dipendenti (poco meno di 2 milioni e 300 mila under 30 nel 2013). In questa analisi è stata rilevata la retribuzione netta, escluse altre mensilità (tredicesima, quattordicesima, ecc.) e le voci accessorie non percepite regolarmente tutti i mesi (premi di produttività annuali, arretrati, indennità per missioni, straordinari, ecc.). Per garantire una adeguata rappresentatività dei dati, sono state considerate le mansioni che occupano almeno 12 mila lavoratori dipendenti under 30. Pertanto, sono stati esaminati circa 1.900.000 dipendenti con meno di 30 anni, pari all’ 86% del totale nazionale.Una frase ci colpisce: non sono poche le imprese che ancora adesso faticano a trovare del personale con un sufficiente livello di preparazione. Ancora una volta il problema della inutilità del nostro sistema formativo emerge. Chi insegna a saldare? Nessuno. Ci sarà un ingegnere meccanico / insegnante per necessità che spiegherà ad un allievo tutte le tipologie di saldatura e valuterà il suo livello di preparazione con un test a risposta multipla. Ma la saldatrice? Quando mai l'ha vista quell'ingegnere? Quindi...ile.Pizza al taglio per tuttiPizza al taglio, gastronomie, rosticcerie, friggitorie, addetti alle pulizie, estetiste, serramentisti, panettieri, giardinieri, gelatai e dipintori sono le principali attività artigianali che l’anno scorso hanno battuto la crisi.Alcune categorie, composte però da un numero di attività abbastanza contenuto, hanno segnato variazioni positive marcate. I tatuatori: + 442,8%. Seguono i pasticceri, con +348%, i pellettai, con +216,3%, gli addetti alle pulizie, con + 199,1% e i disegnatori grafici, con + 189,8%.Nel 2013 comunque le prime 20 attività artigianali in maggiore crescita hanno creato almeno 24 mila nuovi posti di lavoro: un numero che, a grandi linee, corrisponde a quello dei dipendenti della Fiat presenti in Italia.L’esplosione di molte attività è legata al nuovo stile di vita che la crisi ha imposto alle famiglie italiane. Si va meno al ristorante o in pizzeria, ma alla cucina etnica o alla pizza non si rinuncia. Il boom di aperture registrato dai take-away è riconducibile proprio a questa nuova tendenza. Ci si priva di un capo di abbigliamento o di qualche giorno di vacanza, ma non si fa a meno al trattamento del corpo o alla manicure. Si costruisce sempre meno: di conseguenza le abitazioni esistenti hanno bisogno di interventi manutentivi, sostituzione delle porte e delle finestre, tinteggiatura delle pareti interne/esterne.Il lavoro di intortare colle chiacchiere
Un genitore si dissangua per mandare i figli a studiare all’Università nella speranza che domani ciò possa servir loro a trovare un posto di lavoro, magari in linea con le tematiche studiate.Cosa trova? Che in quel consesso di sapienza circolano (speriamo lecitamente), alcuni individui che offrono agli allievi dei colloqui mirati a selezionare un piccolo plotoncino da avviare alla nobile professione di chiedere l’elemosina.Avete letto bene. Poco cambia se il termine è tecnico: dialogatori/dialogatrici.Che devono fare costoro? Fermare la gente per strada e cercare, con ogni artificio retorico, avvenenza fisica non esclusa, di farsi dare dei soldi per delle nobili cause: Unicef, Amnesty International, ecc.Ovviamente esibiscono un adeguato materiale informativo per creare nell’interlocutore un considerevole senso di colpa per la sua carenza di civicness se non lo fa.Resi esperti dalla questua familiare quotidiana nei confronti dei genitori e dei nonni, i giovani preparano così il loro futuro. A questo ci siamo ridotti: ad un piccolo mondo di giovani questuanti professionali che farebbero invidia ai seguaci di Mackie Messer dell’Opera da tre soldi brechtiana o a quelli di Fagin e Bill Sikes di Oliver Twist?Ovviamente il giovane che, come disse la Fornero, ex ministro madre spirituale di tutti gli esodati, non deve essere choosy, in cambio della nobile arte dello scrocco, riceve pochissimo. Quanto riceve l’intermediario ed il beneficiario finale non lo sappiamo, ma lo intuiamo. Insomma nel mondo delle chiacchiere siamo giunti al capolinea: partiti intonando abbiam delle belle e buone lingue siamo arrivati al santi che pagano il mio pasto non ce n’è. Viva allora i cacciatori di lingue. Questo è il mondo che abbiamo costruito? Un bello smacco per noi benpensanti manichei che intimamente disprezzavamo i venditori di folletto porta a porta (che è un ottimo prodotto perché l’ho provato e comprato) e le olgettine letto a letto (che siano un ottimo prodotto non lo so perché non le ho provate, ma pare abbiano ottime referenze).A cosa serviranno tutti i soldi raccolti per queste buone cause? Un’idea me la sono fatta a Londra, ammirando, vicino al Millennium Bridge, quel magnifico edificio di acciaio e cristallo recentemente edificato. La targa era illuminante: Esercito della Salvezza (la loro ovviamente, a spese nostre). Grazie, abbiamo già dato.Opinion-leading e fashion-influencer
- Pierino, bello di mamma, sempre a giocare con ‘sto benedetto computer, cercati un lavoro.- A ‘ma, ‘sto lavorando.- E che stai facendo?- Faccio il blogger, sono un opinion-leading.
- Antonietta, bella di papà, sempre a giocare co ‘sto benedetto computer, cercati un lavoro.- A pa, ‘sto lavorando.- E che stai facendo?- Faccio la blogger, sono una fashion-influencer.
Quando ci si avvicina al mondo del blogging sorgono spontaneamente moltissime domande:· quanto guadagna un blogger?· Come guadagna un blogger?· Tutti possono fare i blogger?· Ma il blogging è un lavoro?· E si può vivere di blogging?Si dice che i blogger di successo guadagnino molto, anche se dalla cartella delle tasse pagate ciò non risulta. La leggenda narra che Chiara Ferragni “The Blonde Salad” nel 2018 abbia fatturato 10 mln €. Trattandosi di una persona certamente onestissima lo vedremo nella sua dichiarazione dei redditi (che se così fosse ci arricchirebbe indirettamente tutti).La borsa ed il mercato sono comunque un’ottima cartina di tornasole.Ecco la The Top 5 Earnings Blogs1 – The Huffington Post di Arianna Huffington: 2.330.000 $/mese (introito principale: pay per click) si impone nel settore delle notizie, spaziando dalla cronaca politica all’intrattenimento. Molte personalità influenti hanno scritto pezzi tra cui Barack Obama, Michael Moore e Madonna.2 – Techcrunch di Michael Arrington: 800.000 $/mese (introito principale: banner pubblicitari) si occupa di novità e curiosità di tecnologia.3 – Mashable di Pete Cashmore: 600.000 $/mese (introito principale: banner pubblicitari) si occupa di attualità, specializzato nei Social Networks.4 – Perez Hilton di Mario Lavandeira: 450.000 $/mese (introito principale: banner pubblicitari) un personaggio televisivo e un conduttore radiofonico molto famoso negli Usa, si occupa soprattutto di gossip e novità legate al mondo di Hollywood.5 – Smashing Magazine di Vitaly Friedman: 190.000 $/mese (introito principale: banner pubblicitari) si occupa di diffondere notizie, curiosità e tendenze nel modo del web design e del web developping, distinguendosi per precisione e puntualità.Come si può subito capire ci troviamo di fronte a vere e proprie testate giornalistiche che devono pagare decine di giornalisti, sedi con alta visibilità ed impianti con server gestiti da veri specialisti.Per farsi un’idea un CPM ad 1 € è già un successo. Quindi per incassare 100 € lordi devi avere ricevuto 100.000 visite. Fate vobis.
Nel 2017 gli investimenti pubblicitari sul web supereranno per la prima volta quelli televisivi, e una parte crescente di questi investimenti sono destinati agli influencer del web: i blogger. La scelta di riservare un crescente budget a loro dipende dal fatto che noi umani amiamo impersonarci in altri umani, siamo empatici e siamo portati per natura a intrufolarci nelle storie altrui, di coloro che condividono i nostri valori e che, nella vita, hanno raggiunto i propri obiettivi.Quando guardi una pubblicità sai che è li per tentare di convincerti, persuaderti, manipolarti. Quando invece leggi un blog è come se entrassi nel salotto del blogger per scambiare qualche riflessione con lui e i suoi lettori. La gente segue un blog per la persona che ci sta dietro, per il suo modo di raccontare e di vedere le cose, per il suo why.I blogger sono perlopiù donne (il 54%), hanno un’età al di sotto dei 35 anni, e un numero di visitatori, tra 10.000 e 50.000 al mese, rispetto ai giornalisti si sentono più vicini ai lettori e ritengono di avere una maggiore interazione con il consumatore finale. La fonte dei contenuti sono i comunicati stampa o i prodotti inviati dalle aziende, il che spiega un’interazione sempre più stretta tra la blogosfera e le dinamiche commerciali e pubblicitarie.I “business blogger” sono passati dal 49% del 2014 a oltre il 70% nel 2016. Sperano di farlo per trovare un’opportunità professionale di guadagno, perché Facebook e gli altri social network hanno soddisfatto in buona parte dei casi il bisogno di comunicare e basta.Ma la strada per il guadagno è ancora lunga da percorrere e tutta in salita. Gli “introiti” derivanti dalla pubblicità, sono per lo più in natura (inviti ad eventi e prodotti da provare, dai telefonini fino al mito di una Luis Vuitton per chi scrive di moda) e vanno di pari passo con la crescita delle inserzioni pubblicitarie, salite dal 41% del 2014 al 63% del 2016.I “techno blogger” sono il segmento dell’informazione che ha tirato di più negli ultimi tempi, è balzata dal 6% al 23,8% dei temi trattati (smartphone o videogame), il fashion è sceso dal 33% al 17%, i viaggi (dal 25% al 16,3%).Per ora i blog servono alle imprese non ai blogger.
Professione youtuber
L’ennesimo inganno della rete per i giovani disoccupati si chiama “professione youtuber”. Tradotto in un linguaggio comprensibile a tutti: si lascia intendere che si può campare bene divertendosi, basta girare video amatoriali sui propri hobby e pubblicarli su YouTube. Pare che i filoni più “redditizi” siano i video musicali, il gaming (recensioni di videogiochi), il fashion (tutorial su come vestirsi o truccarsi) e l’entertainment, ossia contenuti comici. Il successo viene fatto apparire dietro l’angolo, come PewDiePie, ragazzo svedese che, in lingua inglese, si occupa di videogame: conta più di 30 milioni di iscritti. La sua fidanzata, Marzia Bisognin, vicentina, con il nick CutiePieMarzia si occupa, sempre in lingua inglese, di cucina e moda, 4 milioni di iscritti. In Italia il primato spetta a Favij, sempre a tema gaming, con oltre 3 milioni di iscritti. Basta questo per far credere che si possa diventare milionari… della fantasia. E c’è subito chi fa scuderia sulle loro spalle. Si chiamano Show Reel, Zodiak, Yam e Believe. Parti per gioco, cominci a pubblicare con una certa continuità, fai networking con altri youtuber, ti costruisci un seguito di pubblico e, quando arrivi a 10mila visualizzazioni diventi interessante. Ti intercettano, ti prendono in squadra, ti aiutano a “migliorare” i contenuti e a ottimizzare i guadagni (soprattutto i loro). Se tocchi i 500mila, giornali e tv si interesseranno a te. I miti sono Guglielmo Scilla in arte Willwoosh, che ha fatto cinema e radio; Frank Matano, che ha collaborato con «Le Iene» e Cliomakeup che è sbarcata su Real Time con i suoi tutorial di trucco. A Daniele Doesn't Matter Selvitella, 27 anni, fenomeno comico da quasi 600mila iscritti, è capitato di pubblicare un libro con Mondadori. Dietro il successo c’è però la triste realtà. Di solo YouTube i migliori guadagnano quanto un impiegato diplomato di prima nomina e lavorano notte e giorno. Il conto è presto fatto. Il mezzo per guadagnare su YouTube sono le pubblicità, di conseguenza più visualizzazioni si hanno su un video e maggiori sono gli introiti che quest’ultimo porta al suo autore. Il criterio di monetizzazione è il CPM (costo per mille impressioni), la cifra è variabile a seconda dei mesi, ma facendo una media, varia all’incirca tra gli 0,1 cent e i 0,2 cent (a seconda della fama) ovviamente lordi. Il top, Favij in 5 anni ha totalizzato 1,5 miliardi di visualizzazioni. Quindi essendo il più famoso (1,5 miliardi/1000x0,2/5/12) fanno esattamente 5.000 €/mese lordi. Il medium, Sofia Viscardi, attiva da 6 anni circa 700mila utenti e 60 milioni di pagine viste. Tira su la miseria di 200€/mese lordi. Se pensate che Beppe Grillo vi promette di darvi 500 €/mese, basta che lo votiate, fatevi due conti.
Inbound marketingVuoi che la tua passione web diventi un lavoro? Vuoi passare le giornate in spiaggia mentre i lettori del tuo blog ti consentono di fare soldi senza lavorare? Piantala di dire sciocchezze. Accontentati (se sei fortunato e bravo) ad arrotondare lo stipendio che ti guadagni in altro modo con piccolissime entrate, accontentati di campioncini e di ingressi omaggio per fiere ed eventi.
Il resto sono illusioni.
In teoria se arrivano 100 persone sulla tua pagina web, e 10 cliccano sul banner pubblicitario tu guadagni il dovuto. Stesso discorso vale per le affiliazioni: se 10 comprano grazie al tuo link, tu guadagni ciò che ti è dovuto.
Ma diciamocelo, questo non succede quasi mai.
Vi è anche un’altra leggenda di guadagno, il cosiddetto inbound marketing. Ovvero attiri le persone sul tuo blog per trasformarle in tuoi clienti, per vendere loro qualcosa. Sul web ci sono i lead, le persone che hanno bisogno di determinate figure professionali. Dall’altra parte del monitor ci sei tu – sistemista, webwriter, SEO, web designer – che decidi di sfruttare il blog per trovare clienti. Inizi a pubblicare contenuti di qualità. Li condividi sui social, crei relazioni virtuose, ti fai conoscere sui forum, fai comment marketing per costruire la tua autorevolezza. Magari pubblichi guest post e ti impegni in qualche collaborazione per far girare il tuo nome. Frequenti luoghi virtuali dove puoi dimostrare le tue competenze. In questo modo crei attenzione intorno al tuo brand. Completi il processo con una landing page, che permette al lettore di raccogliere informazioni sul tuo lavoro e di fare una scelta, inviarti una email per chiedere maggiori informazioni o un preventivo. Un blog può essere il trampolino di lancio per la tua attività. Sei un web writer? Un web designer? Un SEO? Attraverso un blog puoi trovare clienti per fare formazione individuale o in aula, per trasferire le tue conoscenze. Puoi offrire un servizio di consulenza one to one con Skype su un tema specifico, magari individuato dal cliente. Puoi lavorare su un corso dedicato alla tua materia da proporre al singolo cliente. O a un gruppo di clienti in azienda, in coworking, in aula. Insomma un CV e un foglietto virtuale che dai ripetizioni. Ed il giro si chiude. Provi ad insegnare ad altri quello che sai.
A cosa serve? A nulla. Si chiama autoreferenzialità.
Non trovi lavoro con quello che sai? Provi ad insegnare ad altri. E loro, dopo aver imparato da te quello che non serve a trovare lavoro, non trovandolo insegneranno a loro volta ad altri…
E la catena di sant’Antonio continua.
Solo che detto in inglese ha tutto un altro effetto.
Un futuro senza pensione
Tanto per cambiare il problema dell’Italia sono i giovani.
Per ora, nel nome di relitti di ideologie, se le danno di santa ragione. Un insano esercizio fisico in assenza di un sano esercizio cerebrale.
Loro che nulla sanno degli Anni di Piombo o della Repubblica di Weimar, giocano inconsapevoli a farne il verso, nel nome di orecchiate ideologie che credevamo sepolte dalla storia.
E così i giovani sono diventati l’ultima sfaccettatura di un problema di ordine pubblico preelettorale.
Per gli intellettuali da talk show è tutto grasso che cola. Parlano di “fascismi del Terzo Millennio”. Sarebbero quelle patetiche sfilate paramilitari fatte da nerborute matrone e muscolosi seguaci delle arti marziali sotto lo striscione di Casa Pound, una formazione politica che prende il nome da un poeta straordinario e complessissimo, di cui i militanti non hanno letto mai una riga.
Parlano pure di “antifascismo militante” usato come foglia di fico per coprire quella umanità borderline che vive di spaccio e di piccole attività pseudo - artistiche nei centri sociali, che si professa, alternativamente, marxista rivoluzionaria o anarchico insurrezionalista, anche se è incapace di decifrare una sola sillaba di Marx o di Toni Negri.
Non sapendo bene con chi prendersela, si sente straparlare di degenerazione ampiamente prevista (da chi? quando? come? perché?) dello spietato “turbocapitalismo”, con a destra proletari disoccupati (perché delle loro professionalità manuali la società non sa più cosa farsene), e a sinistra figli di una borghesia decaduta (impoverita da un tartassamento fiscale inaudito giustificato eticamente con la doverosa redistribuzione dei redditi), una “classe disagiata”, di giovani che hanno studiato per diventare intellettuali, professori, giornalisti, le cui aspirazioni si scontrano con un mercato del lavoro intellettuale che di loro non ha e non avrà mai alcun bisogno.
Questi giovani usano le bandiere non tanto per sfilarci dietro orgogliosi dell'ideologia che individua, ma per usare le aste come armi per menanrsi, sono solo la punta muscolare (e paradossalmente socialmente meno pericolosa) di un iceberg giovanile che, per ora, si rifugia nell'astensione dalla vita politica e nel risentimento intimista più autodistruttivo. Non a caso depressione ed anoressia sono ormai malattie anche e soprattutto dei giovani.
Cosa farà questa massa di “inerti sociali” che tra dieci anni, morti i nonni con le cui pensioni vivevano e giunti i genitori alla pensione da fame stabilita dalle nuove regole, volenti o nolenti saranno chiamati a prendere in mano le sorti della propria vita per unire pranzo e cena quotidiani?
Si limiteranno alla dimensione verbale dei vaffa? Prenderanno eternamente per buono il manicheismo della riduzione della complessità sociale a un unico nemico: il complotto capitalista/eurocratico/bancario/migrazionista?
Quando cesseranno di farsi la guerra tra loro e rivolgeranno, infine, la loro attenzione verso la maggioranza silenziosa degli anziani che non riuscirà più a mantenerli per continuare a tenerli ai
- i dipendenti a temine involontari;
- i dipendenti part time involontari;
- i collaboratori che presentano contemporaneamente 3 vincoli di subordinazione: monocommittenza, utilizzo dei mezzi dell’azienda e imposizione dell’orario di lavoro;
- i liberi professionisti e lavoratori in proprio (le cosiddette Partite Iva) che presentano in contemporanea i 3 vincoli di subordinazione descritti nel punto precedente.
Lavoratori precari per regione (1-1-2011) | ||
Regione | Valore assoluto | Incidenza % sul totale occupati regionale |
Calabria | 121.498 | 21,2% |
Sardegna | 121.082 | 20,4% |
Sicilia | 286.011 | 19,9% |
Puglia | 241.622 | 19,8% |
Umbria | 60.115 | 16,4% |
Basilicata | 28.742 | 15,5% |
Lazio | 347.806 | 15,4% |
Toscana | 224.949 | 14,5% |
Abruzzo | 71.394 | 14,5% |
Liguria | 91.661 | 14,4% |
Campania | 223.329 | 14,1% |
Molise | 14.809 | 13,7% |
Emilia | 258.747 | 13,4% |
Marche | 87.474 | 13,3% |
Piemonte | 251.547 | 13,2% |
Friuli | 66.552 | 13,1% |
Trentino | 59.718 | 12,7% |
Lombardia | 524.443 | 12,3% |
Veneto | 234.080 | 11,1% |
ITALIA | 3.315.580 | 14,5% |
Lavoratori precari per titolo di studio (1-1-2011) | ||
Titolo di studio | Valore assoluto | In % sul totale |
Diploma media superiore | 1.525.978 | 46,0% |
Nessun titolo, lic. elementare o lic. media | 1.288.772 | 38,9% |
Laurea | 464.728 | 14,0% |
Diploma post laurea | 36.102 | 1,1% |
TOTALE | 3.315.580 | 100,0% |
15 – 34 anni | |||
Maschi | Femmine | Totale | |
Precari | 927 | 759 | 836 |
Lavoratori precari per settore (1-1-2011) | ||
Valore assoluto | Incidenza % sul totale occupati del settore | |
Alberghi e ristoranti | 337.379 | 28,3% |
Altri servizi pubblici e sociali | 477.299 | 27,1% |
Agricoltura, caccia e pesca | 232.245 | 26,1% |
Servizi alle imprese | 414.672 | 16,9% |
Istruzione, sanità | 514.814 | 16,2% |
Commercio | 436.842 | 12,9% |
Trasporti e comunicazioni | 133.522 | 10,8% |
Costruzioni | 192.710 | 10,0% |
Manifattura | 380.779 | 8,7% |
Pubblica amministrazione | 118.978 | 8,4% |
Intermediazione monetaria | 64.030 | 7,7% |
Energia | 12.539 | 6,8% |
Valore assoluto | In % sul totale | |
Nordovest Nordest Centro Sud | 867.651 619.098 720.345 1.108.487 | 24,92 18,19 21,68 35,18 |
TOTALE | 3.315.580 | 100,0 |
I dati fanno riflettere. Ma uno soprattutto ci ha colpito: 1 precario su 3 è alle dipendenze della Pubblica Amministrazione e la possibilità di una sua stabilizzazione occupazionale é esigua. Tra l'altro qui sono concentrati gli occupati con livelli di istruzione più elevati. Cioè i figli della cosiddetta scuola inut
Un genitore si dissangua per mandare i figli a studiare all’Università nella speranza che domani ciò possa servir loro a trovare un posto di lavoro, magari in linea con le tematiche studiate.Cosa trova? Che in quel consesso di sapienza circolano (speriamo lecitamente), alcuni individui che offrono agli allievi dei colloqui mirati a selezionare un piccolo plotoncino da avviare alla nobile professione di chiedere l’elemosina.Avete letto bene. Poco cambia se il termine è tecnico: dialogatori/dialogatrici.Che devono fare costoro? Fermare la gente per strada e cercare, con ogni artificio retorico, avvenenza fisica non esclusa, di farsi dare dei soldi per delle nobili cause: Unicef, Amnesty International, ecc.Ovviamente esibiscono un adeguato materiale informativo per creare nell’interlocutore un considerevole senso di colpa per la sua carenza di civicness se non lo fa.Resi esperti dalla questua familiare quotidiana nei confronti dei genitori e dei nonni, i giovani preparano così il loro futuro. A questo ci siamo ridotti: ad un piccolo mondo di giovani questuanti professionali che farebbero invidia ai seguaci di Mackie Messer dell’Opera da tre soldi brechtiana o a quelli di Fagin e Bill Sikes di Oliver Twist?Ovviamente il giovane che, come disse la Fornero, ex ministro madre spirituale di tutti gli esodati, non deve essere choosy, in cambio della nobile arte dello scrocco, riceve pochissimo. Quanto riceve l’intermediario ed il beneficiario finale non lo sappiamo, ma lo intuiamo. Insomma nel mondo delle chiacchiere siamo giunti al capolinea: partiti intonando abbiam delle belle e buone lingue siamo arrivati al santi che pagano il mio pasto non ce n’è. Viva allora i cacciatori di lingue. Questo è il mondo che abbiamo costruito? Un bello smacco per noi benpensanti manichei che intimamente disprezzavamo i venditori di folletto porta a porta (che è un ottimo prodotto perché l’ho provato e comprato) e le olgettine letto a letto (che siano un ottimo prodotto non lo so perché non le ho provate, ma pare abbiano ottime referenze).A cosa serviranno tutti i soldi raccolti per queste buone cause? Un’idea me la sono fatta a Londra, ammirando, vicino al Millennium Bridge, quel magnifico edificio di acciaio e cristallo recentemente edificato. La targa era illuminante: Esercito della Salvezza (la loro ovviamente, a spese nostre). Grazie, abbiamo già dato.
Professione youtuber
L’ennesimo inganno della rete per i giovani disoccupati si chiama “professione youtuber”. Tradotto in un linguaggio comprensibile a tutti: si lascia intendere che si può campare bene divertendosi, basta girare video amatoriali sui propri hobby e pubblicarli su YouTube. Pare che i filoni più “redditizi” siano i video musicali, il gaming (recensioni di videogiochi), il fashion (tutorial su come vestirsi o truccarsi) e l’entertainment, ossia contenuti comici. Il successo viene fatto apparire dietro l’angolo, come PewDiePie, ragazzo svedese che, in lingua inglese, si occupa di videogame: conta più di 30 milioni di iscritti. La sua fidanzata, Marzia Bisognin, vicentina, con il nick CutiePieMarzia si occupa, sempre in lingua inglese, di cucina e moda, 4 milioni di iscritti. In Italia il primato spetta a Favij, sempre a tema gaming, con oltre 3 milioni di iscritti. Basta questo per far credere che si possa diventare milionari… della fantasia. E c’è subito chi fa scuderia sulle loro spalle. Si chiamano Show Reel, Zodiak, Yam e Believe. Parti per gioco, cominci a pubblicare con una certa continuità, fai networking con altri youtuber, ti costruisci un seguito di pubblico e, quando arrivi a 10mila visualizzazioni diventi interessante. Ti intercettano, ti prendono in squadra, ti aiutano a “migliorare” i contenuti e a ottimizzare i guadagni (soprattutto i loro). Se tocchi i 500mila, giornali e tv si interesseranno a te. I miti sono Guglielmo Scilla in arte Willwoosh, che ha fatto cinema e radio; Frank Matano, che ha collaborato con «Le Iene» e Cliomakeup che è sbarcata su Real Time con i suoi tutorial di trucco. A Daniele Doesn't Matter Selvitella, 27 anni, fenomeno comico da quasi 600mila iscritti, è capitato di pubblicare un libro con Mondadori. Dietro il successo c’è però la triste realtà. Di solo YouTube i migliori guadagnano quanto un impiegato diplomato di prima nomina e lavorano notte e giorno. Il conto è presto fatto. Il mezzo per guadagnare su YouTube sono le pubblicità, di conseguenza più visualizzazioni si hanno su un video e maggiori sono gli introiti che quest’ultimo porta al suo autore. Il criterio di monetizzazione è il CPM (costo per mille impressioni), la cifra è variabile a seconda dei mesi, ma facendo una media, varia all’incirca tra gli 0,1 cent e i 0,2 cent (a seconda della fama) ovviamente lordi. Il top, Favij in 5 anni ha totalizzato 1,5 miliardi di visualizzazioni. Quindi essendo il più famoso (1,5 miliardi/1000x0,2/5/12) fanno esattamente 5.000 €/mese lordi. Il medium, Sofia Viscardi, attiva da 6 anni circa 700mila utenti e 60 milioni di pagine viste. Tira su la miseria di 200€/mese lordi. Se pensate che Beppe Grillo vi promette di darvi 500 €/mese, basta che lo votiate, fatevi due conti.
Il resto sono illusioni.
In teoria se arrivano 100 persone sulla tua pagina web, e 10 cliccano sul banner pubblicitario tu guadagni il dovuto. Stesso discorso vale per le affiliazioni: se 10 comprano grazie al tuo link, tu guadagni ciò che ti è dovuto.
Ma diciamocelo, questo non succede quasi mai.
A cosa serve? A nulla. Si chiama autoreferenzialità.
Non trovi lavoro con quello che sai? Provi ad insegnare ad altri. E loro, dopo aver imparato da te quello che non serve a trovare lavoro, non trovandolo insegneranno a loro volta ad altri…
E la catena di sant’Antonio continua.
Solo che detto in inglese ha tutto un altro effetto.
10 miliardi di perdite l’anno per i prossimi dieci anni. Sono queste le prospettive per il futuro dell’INPS. Non si parla di perdite circoscritte o una tantum, ma di un rosso sistematico, un buco strutturale che peserà come una vera e propria spada di Damocle sulla testa dei pensionati italiani. Non resta che tagliare le pensioni. Ma come si può diminuire le pensioni se 6,6 milioni di persone non arrivano a 1000 €/mese e 1,9 milioni non supera neppure la soglia dei 500 €/mese?
Se a qualcuno fosse sorto il dubbio che l’INPS non sia amministrato al meglio se lo tolga subito dalla testa. L’INPS è così ben amministrato che eroga ai propri manager premi di incentivazione di tutto rispetto: 26 dirigenti delle aree di vigilanza, hanno preso 3,4 milioni per il biennio 2012-2013. Ma naturalmente la validità dell’INPS va ben oltre la dirigenza: sono infatti 400 milioni i premi erogati dall’Istituto ai 30.000 dipendenti come retribuzione di risultato legata alla produttività e alla qualità del servizio secondo i criteri definiti nei contratti collettivi nazionali di lavoro e nei contratti collettivi integrativi vigenti.
Diversamente la pensa la Procura della Repubblica di Nocera Inferiore sull’erogazione di premi di produttività a centinaia di dirigenti e funzionari dell’Inps nel biennio 2012-2013 sulla base di risultati delle ispezioni gonfiati.
Per raccogliere elementi utili all’inchiesta, carabinieri del reparto territoriale di Nocera Inferiore, con la collaborazione di quelli territorialmente competenti e del Ris di Roma, hanno eseguito a Roma un decreto di perquisizione presso la Direzione generale dell’Inps e in tutti i capoluoghi di regione. Il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, messesi le mani nei capelli, ha chiosato: "spaccato inquietante dello stato della Pubblica amministrazione".
Secondo l’ipotesi investigativa nel database dell’Istituto sarebbero stati inseriti dati falsi, maggiorati rispetto a quelli reali, relativamente ai risultati delle ispezioni effettuate nelle aziende e ai rapporti di lavoro annullati per potenziare le "performance" per la corresponsione degli incentivi. Dirigenti locali e centrali dell’Inps (centinaia di dipendenti) sono i maggiori beneficiari delle somme ottenute illecitamente. Falso ideologico e truffa aggravata le ipotesi di reato. È questo il nuovo filone investigativo della maxi inchiesta denominata Mastrolindo (44 ordinanze di custodia cautelare di imprenditori e professionisti e sequestro di beni per oltre 137 milioni di euro per costituzione di aziende inesistenti). Migliaia di rapporti di lavoro fittizi per conseguire indebite erogazioni previdenziali e assistenziali dall’Inps, come indennità di disoccupazione, maternità e malattia.
Il numero di rapporti di lavoro annullati a seguito della verifica in azienda e quelli inseriti nella banca dati ’VG00’, cioè il sistema telematico centrale dell’ente, sono notevolmente diversi. In Campania ad esempio su una forza lavoro di 47.318 unità gli ispettori avevano proceduto all’annullamento di 65.015 rapporti, 17.697 in più. Tra le domande di disoccupazione prese in esame il 50% erano prive dei documenti indispensabili ai fini della liquidazione, ma nonostante questo erano state regolarmente liquidate.
Se a qualcuno fosse sorto il dubbio che l’INPS non sia amministrato al meglio se lo tolga subito dalla testa. L’INPS è così ben amministrato che eroga ai propri manager premi di incentivazione di tutto rispetto: 26 dirigenti delle aree di vigilanza, hanno preso 3,4 milioni per il biennio 2012-2013. Ma naturalmente la validità dell’INPS va ben oltre la dirigenza: sono infatti 400 milioni i premi erogati dall’Istituto ai 30.000 dipendenti come retribuzione di risultato legata alla produttività e alla qualità del servizio secondo i criteri definiti nei contratti collettivi nazionali di lavoro e nei contratti collettivi integrativi vigenti.
Diversamente la pensa la Procura della Repubblica di Nocera Inferiore sull’erogazione di premi di produttività a centinaia di dirigenti e funzionari dell’Inps nel biennio 2012-2013 sulla base di risultati delle ispezioni gonfiati.
Per raccogliere elementi utili all’inchiesta, carabinieri del reparto territoriale di Nocera Inferiore, con la collaborazione di quelli territorialmente competenti e del Ris di Roma, hanno eseguito a Roma un decreto di perquisizione presso la Direzione generale dell’Inps e in tutti i capoluoghi di regione. Il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, messesi le mani nei capelli, ha chiosato: "spaccato inquietante dello stato della Pubblica amministrazione".
Secondo l’ipotesi investigativa nel database dell’Istituto sarebbero stati inseriti dati falsi, maggiorati rispetto a quelli reali, relativamente ai risultati delle ispezioni effettuate nelle aziende e ai rapporti di lavoro annullati per potenziare le "performance" per la corresponsione degli incentivi. Dirigenti locali e centrali dell’Inps (centinaia di dipendenti) sono i maggiori beneficiari delle somme ottenute illecitamente. Falso ideologico e truffa aggravata le ipotesi di reato. È questo il nuovo filone investigativo della maxi inchiesta denominata Mastrolindo (44 ordinanze di custodia cautelare di imprenditori e professionisti e sequestro di beni per oltre 137 milioni di euro per costituzione di aziende inesistenti). Migliaia di rapporti di lavoro fittizi per conseguire indebite erogazioni previdenziali e assistenziali dall’Inps, come indennità di disoccupazione, maternità e malattia.
Il numero di rapporti di lavoro annullati a seguito della verifica in azienda e quelli inseriti nella banca dati ’VG00’, cioè il sistema telematico centrale dell’ente, sono notevolmente diversi. In Campania ad esempio su una forza lavoro di 47.318 unità gli ispettori avevano proceduto all’annullamento di 65.015 rapporti, 17.697 in più. Tra le domande di disoccupazione prese in esame il 50% erano prive dei documenti indispensabili ai fini della liquidazione, ma nonostante questo erano state regolarmente liquidate.
Considerare la mobilità dei giovani in modo positivo
Dopo l’università e le prime esperienze di lavoro precario, hanno deciso di andarsene per non rinunciare a se stessi e ai loro principi. L’Italia perde le sue avanguardie, si lascia scappare la gioventù decisa a non accettare più il ricatto di un contratto full-time a 400 €.
La politica non è in ascolto di questi giovani adulti e non sta provando a curare un’emorragia che non accenna a diminuire. L’approccio è quello di considerare la mobilità dei giovani in modo positivo, esattamente come per il programma Erasmus, diventato il principale elemento di mobilità negli studi. Il tema che si pone è che il paese ha una bilancia del capitale umano negativa. Molti partono e vanno in altre comunità, ma pochi sono quelli che vengono in Italia. In questo modo, l'investimento in capitale umano e in conoscenza fatto con l’istruzione universitaria e superiore diventa un investimento a perdere, che va a generare valore aggiunto altrove. Se la mobilità è a senso unico, allora questo genera anche impoverimento del tessuto umano e competitivo del paese. I giovani partono perché in Italia non riescono ad avere stabilità economica. C’è una difficoltà reale a trovare spazio in Italia, ma c'è soprattutto anche la necessità di accompagnare e orientare le scelte formative dei ragazzi, che in molti casi sono senza prospettive e futuro.
Esiste un divario sempre più ampio tra i desideri e la possibilità di realizzarliChi in Italia ha tra i 20 e i 30 anni ha 2 possibilità: restare con il rischio di perdersi per strada, o andare via senza tornare più. Tra di essi esiste un divario sempre più ampio tra i desideri e la possibilità di realizzarli.
Il 53% di chi cerca lavoro lo fa ormai da almeno 12 mesi. Peggio di noi in Europa hanno fatto solo Grecia e Croazia. La condizione più critica è quella della fascia dei 25-29enni, quelli che vivono la fase di transizione dall’università al mercato del lavoro.
Sogni e progetti di vita vengono per il momento congelati nella speranza che qualcosa prima o poi cambierà. Tra i laureati la disoccupazione è più contenuta. L’istruzione assicura ancora maggiori chance, ma tende anche a prolungare i tempi di stabilizzazione rischiando più degli altri di dover adattare al ribasso le proprie aspettative e di restare intrappolato in una condizione di sottoinquadramento professionale. L’Italia d’altronde è tra gli ultimi Paesi comunitari per impiego di capitale umano qualificato nel processo produttivo. La laurea ha uno scarso rendimento economico, cosa che spinge i giovani più formati al trasferimento verso Paesi in grado di valorizzare meglio le competenze acquisite.
Negli ultimi anni chi ha molto patito è la “generazione x”, entrata nel mondo del lavoro nella seconda metà degli anni ‘90, quando il rapporto tra il debito pubblico e il Pil ha superato il 100% e si è messo mano al mercato del lavoro, con il pacchetto Treu, aprendo a una maggiore flessibilità senza però investire nelle politiche attive. Questo ha spiazzato i giovani e li ha portati a difendersi anziché a dare il meglio di sé, costringendoli ad appoggiarsi alle famiglie.
Di seguito è stata la volta della generazione dei “Millennials”, quelli nati dal 1982 in poi, che oggi tentano di entrare nel mondo del lavoro, i cosiddetti nativi digitali, abituati a un mondo globalizzato e a cooperare in Rete, convinti di avere migliori competenze rispetto alle generazioni precedenti. Il vantaggio di cui godono è di aver visto già le difficoltà della precarietà sui fratelli. Rispetto alla “generazione x”, già alle superiori questi sapevano che ad aspettarli c’era una realtà difficile. Ma tra loro è anche più forte la voglia di emergere e mostrare quanto valgono. La sfortuna è che hanno incontrato la crisi economica e la realtà che si sono trovati davanti è peggiore di quanto si aspettassero.
I ragazzi sono disincantati, ma non completamente rassegnati. Nel breve periodo accettano lavori sottopagati e non in linea con i propri studi pur di lavorare. Nel medio periodo puntano a scelte di vita importanti, come creare una famiglia e avere dei figli. Fare il lavoro dei propri sogni è stato spostato come obiettivo di lungo periodo. Sono scelte adattive.
Aumentano così tra i giovani i lavori part time involontari o coloro che puntano a mettersi in proprio come scelta alternativa se non si trova il lavoro che si sogna nel mondo del lavoro subordinato. Per entrambe le categorie il lavoro non è una assicurazione di benessere: i working poor sono più di 2 milioni e sono soprattutto giovani.
Non a caso, i matrimoni in Italia sono calati a un ritmo del 5 % annuo e si è toccato il punto più basso delle nascite nella storia della Repubblica italiana.
Allora ecco perché l’80% dei giovani sostiene che la scelta più giusta per migliorare la propria condizione sia quella di andarsene all’estero. Ma sono davvero disposti a partire?
Rientrare e reinserirsi non è per nulla facile
Sono giovani indipendenti, autonomi, chiacchierano poco, sono pratici e concreti. Sono innamorati dell’Italia più di quando l’hanno lasciata e hanno imparato, in costose capitali straniere, ad apprezzare le cose semplici della vita. Casa, cibo, città a misura d’uomo. E il calore di relazioni immediate, fatte anche di contatto fisico. Ma soprattutto, tornano tutti con più voglia di lavorare di quando sono partiti. Hanno voglia di sentirsi utili e apprezzati. Rientrare e reinserirsi non è per nulla facile. A meno che questi giovani, diventati nel frattempo adulti, non decidano di usare l’intraprendenza e le capacità acquisite all’estero, e di fare da sé. Perché l’Italia si ripresenta sempre con le stesse chiusure e rigidità. Andare all'estero serve a capire che molte cose si possono fare meglio. E siccome difficilmente si inventano cose nuove, ci si può limitare a copiare bene quel che fuori funziona. La gestione all’estero è pianificata ed efficiente. I paesi esteri capiscono di quali profili hanno bisogno e fanno il possibile per attrarli dall’estero se non ne hanno a sufficienza in patria. Il problema di chi rientra è che non capisce come cercare lavoro. Non c'è una rete efficiente di centri del lavoro. L’unica è di fare da sé. Lamentarsi di meno e fare di più. Imparare che perdere il lavoro non è un dramma. Per essere utili al Paese, bisogna guardare le cose con distacco e produrre cambiamento. Palla avanti e pedalare.
Stop a dipendenti a tempo indeterminato ma sì a collaboratori temporanei
Oggi il lavoro subordinato è un costo sociale immenso, su cui campano i sindacalisti, la cui gestione comporta oneri burocratici immensi per le aziende e permette il lavoro nero dei cassa integrati. Se le imprese, in fase congiunturale espansiva, invece che essere costrette ad assumere dipendenti a tempo indeterminato potessero usufruire di collaboratori, secondo le proprie necessità temporanee, avremmo una propensione ad espandere il proprio business attraverso sempre nuovi rapporti di collaborazione. Il collaboratore che non mi soddisfa lo sostituisco, quando la commessa cessa, cessa la collaborazione. Oggi le partite IVA sono più di 6 milioni e sono in continua crescita in tutti i settori. Hanno agevolazioni fiscali e provvedono alla propria pensione con versamenti autonomi. Esse costituiscono il focus dell'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, senza discriminazioni di genere, in pieno rispetto della meritocrazia. La profonda trasformazione dei metodi produttivi va in questa direzione. Non più contadini e braccianti ma agronomi che gestiscono colture ottimizzate con macchinari. Non più operai e manovali, ma robot programmati e controllati da specialisti, e si potrebbe continuare. Quello poi della propensione alla spesa è un errore grossolano. La partita IVA non è sinonimo di precarietà, ma di una mentalità e di uno stile di vita sicuramente assai più incline alla spesa di altre categorie di lavoratori.
Superare una volta per tutte il lavoro subordinatoCredo che andrebbe superato una volta per tutte il lavoro subordinato. Se ogni individuo nascendo avesse, insieme al codice fiscale anche la partita iva attraverso la quale ogni sua successiva attività lavorativa (anche l'alternanza scuola - lavoro) venisse gestita, si avrebbe la possibilità, eguale per tutti, di provvedere al pagamento delle tasse detraendo le spese per la produzione del reddito, di provvedere per proprio conto al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali secondo le prestazioni richieste e la costruzione di un adeguato piano assicurativo – pensionistico. Avremmo una sorta di reale giustizia occupazionale, legata alla capacità, con il superamento definitivo delle figure di lavoratore pubblico e privato. autonomo o subordinato. Ognuno sarebbe imprenditore di se stesso e contribuente. Credo che nell'epoca della progressiva robotizzazione dell'economia sarebbe un beneficio per tutti. Ieri la globalizzazione delle merci, delle produzioni e dei capitali si è avvalsa dei paesi con basse tutele legali e dei paradisi fiscali per guadagnare di più ed evadere le tasse che potrebbero, opportunamente redistribuite, essere di vantaggio per tutti. Oggi però assistiamo ad una nuova fase della globalizzazione produttiva, in cui si preferisce ritornare a produrre in paesi tecnologicamente avanzati attraverso un uso massiccio dei robot. La conseguente richiesta di alta professionalità comincerà presto a riportare in patria i cervelli fuggiti all'estero e a dar luogo ad una nuova fase di contro-immigrazione colta e preparata.
Quanto vive una startup?
Cosa puoi fare per lavorare? Fare impresa, è la risposta. Perché è dall’impresa che riparti tu e l’Italia. C’è chi lo sta facendo (molti) e ci sta riuscendo (pochi). È difficilissimo ma possibile. Se cresce il numero di nuovi imprenditori cresce anche la pressione sociale per cambiare le regole che ruotano attorno all’impresa. Sta nascendo sotto traccia una generazione di imprenditori che mette insieme valore economico e valore sociale, che ha ispirazioni fortemente olivettiane, che non chiede ma agisce e poi è pronta a pretendere.
Nel 2005, c’era “Generazione Mille Euro”, nel 2015 “La Repubblica degli Innovatori”.
Sono cinque le mosse da fare per guardare al 2020 con la testa alta: condividere; sperimentare; digitalizzare; rispettare; liberare.
Condividere significa fare impresa con altre persone, co-fondare una startup, non pensare che sia il tempo dell’uomo solo al comando. Servono più esperienze e più teste, secondo quell’antimatematico principio che uno più uno è maggiore di due, quando si parla di cervelli. Significa dare valore alle persone, prima che alle idee, consci del fatto che è l’execution a prevalere sulla idea tout-court.
Sperimentare ci porta nel terreno dell’innovazione, dello smettere di fare le cose come le abbiamo sempre fatte sperando che i risultati possano essere differenti. Ci porta anche sul terreno del rischio, l’unico su cui si può giocare la partita oggi, con la coscienza del fatto che il fallimento è un’opzione da contemplare, di cui non vergognarsi, anzi da facilitare se necessario.
Digitalizzare è l’unica possibilità per combattere la sfida globale alla italiana maniera: think local, act global, pensa qui ma poi porta il tuo prodotto in tutto il mondo, grazie appunto al digitale. È la maniera antitetica, rispetto a ciò che gli americani hanno promosso (la loro filosofia è: think global, act local), per affrontare la globalizzazione e vincere la nostra sfida nel mondo.
Rispettare è un verbo che pochi collegano all’impresa ma che invece rappresenta la nuova visione di impresa dei più giovani: rispetto per l’ambiente, per le persone, per i tempi, per le diversità. A ognuno il suo modo di essere e di fare, in un’impresa che torna a essere motore di cambiamento sociale come fu con Adriano Olivetti.
Liberare è la sfida più dura, perché spetta a governo, pubblica amministrazione, enti locali: smettete di fare leggi. Cancellatele, le troppe, inutili e cavillose leggi che avete creato in questi anni. Siamo prigionieri di burocrazia, imposizione fiscale e ostracismo nei confronti degli imprenditori. Tagliate seriamente le tasse, l’Ires deve andare a zero per tre anni per tutte le nuove imprese e poi fermarsi al 12-13%, il cuneo fiscale ridotto in maniera permanente a vantaggio di datore di lavoro e lavoratore. E poi la burocrazia va azzerata, la P.A. deve diventare servizio per l’impresa e non controparte, antagonista o addirittura nemico.
Non sono cose difficili da fare, non sono cose che possiamo negoziare, vanno fatte così, punto e basta. Perché altrimenti le quattro mosse precedenti diventano innocue, inutili. Noi siamo pronti a farlo, non vogliamo aiuti ma solo libertà d’azione. Non è poco, ma siamo pronti a dare tanto: è la Repubblica degli Innovatori, quella che possiamo costruire assieme, non costringeteci a farlo altrove.Nel primo trimestre del 2019 le “start up” guidate da giovani (titolari e amministratori) con meno di 30 anni ammontavano a poco meno di 300 mila unità.
In passato i giovani decidevano di mettersi in proprio perché nutrivano forti motivazioni personali ed erano animati dalla voglia di essere completamente autonomi. In questi ultimi anni di crisi, invece, queste spinte sono venute meno e non sono pochi i giovani che hanno intrapreso la strada dell’imprenditorialità non per vocazione ma per necessità, in quanto impossibilitati ad entrare nel mercato del lavoro come lavoratori dipendenti.
La fragilità delle “start up” è un dato ormai consolidato: nei primi 5 anni di vita, oltre 9/10 di queste imprese getta la spugnaTra i lasciti verbali di questo primo scorcio del terzo millennio i termini spin off e start up lasciano di sè un brutto ricordo. Sono entrambi figli di un sistema formativo e di un mondo della ricerca che non funzionano. Ma provate a dirlo ai docenti autoreferenziali e sentirete gli strilli sulla necessità di aumentare i fondi destinati alla formazione, alla ricerca ed alla modernizzazione. Dei paesi industrializzati l'Italia è di gran lunga quello che deposita il minor numero di brevetti internazionali. Qualsiasi formazione è meglio di questa.
Quante startup falliscono? Nove su dieci. È questa la dura realtà, una realtà sulla quale è utile meditare, perché ogni imprenditore ottimista ha bisogno di affrontare la realtà di tanto in tanto. Dati crudi come questi non devono esser visti come un modo per scoraggiare ma, piuttosto, per spingere a lavorare sodo e in maniera più oculata. Ci sono un gran numero di caratteristiche a far sì che una startup abbia successo. Basta la mancanza di una sola di queste e patatrac.
1. Il prodotto deve essere perfetto per il mercato. La ragione fondamentale per cui si fallisce è realizzare prodotti che nessuno vuole (42%).
2. L’imprenditore non trascura alcun dettaglio. Una buona idea di prodotto e un team di tecnici competente non garantiscono un business sostenibile. Cosa manca? Sottovalutare “le cose noiose”. Il CEO pensa “Il mio compito è dirigere”. Il CMO pensa “Il mio compito è vendere”. Il lead developer pensa, “Il mio compito è codificare”. Le cose sono ben più interconnesse in una startup, i ruoli e le responsabilità spesso si sovrappongono. Le cose piccole possono diventare grandi. Si deve lavorare sul proprio obiettivo di business e non nel proprio business.
3. L’azienda deve cresce velocemente. Se non ha una crescita altamente accelerata non è in grado di assicurarsi i capitali per gli stadi successivi. E ciò è l’inizio della fine. Se la crescita non si verifica dopo un certo quantitativo di tempo, allora la crescita non si verificherà affatto. Un’azienda che non cresce si sta in pratica riducendo.
4. Il team deve sapere come recuperare. Ogni startup ha alle spalle un team di persone. Più versatili sono tali persone, più probabilità di successo si hanno. È una questione di attitudine mentale. I team delle startup devono possedere la capacità di cambiare i prodotti, adeguarsi a piani di compensazione diversi, intraprendere nuovi approcci al marketing, cambiare settore, ri-brandizzare l’attività o addirittura mandare all’aria l’attività stessa e ricominciare da capo. Tutto sta nel riprendersi dagli scossoni.
Conclusioni: 1 su 10 ce la fa.
La strage delle innocenti partite IVALe difficoltà che hanno colpito il mondo delle partite Iva emergono in maniera evidentissima da un semplice confronto: tra il 2008 (inizio della crisi) e il dicembre del 2020 (ultimo dato disponibile) hanno chiuso l’attività ben 415.000 partite Iva. I più colpiti da questa moria sono stati i lavoratori in proprio, ovvero gli artigiani, i commercianti e gli agricoltori: infatti, nello stesso periodo sono diminuiti di 345.000 unità. In quasi sei anni di crisi economica, la variazione dell’occupazione degli indipendenti è stata del -7 per cento. Nel medesimo periodo, per ogni cento lavoratori autonomi, quasi 8 hanno chiuso i battenti. In termini assoluti, la platea dei subordinati ha perso 565.000 lavoratori, mentre in termini percentuali è diminuita solo del 3,2 per cento, con una quota del numero dei posti di lavoro persi sul totale della categoria pari al 3,3 per cento. Le uniche categorie che hanno registrato risultati positivi sono stati i soci delle cooperative (+ 2.000 unità, pari al +4,4 per cento) e, soprattutto, i liberi professionisti. Il numero degli iscritti agli ordini e ai collegi professionali sono aumentati di ben 115.000 unità (+9,8 per cento). Il primo fattore si spiega con il canale preferenziale di certa pubblica amministrazione nei confronti di certe cooperative sociali. Il secondo fattore si spiega con l’incremento delle cosiddette false partite Iva. Si pensi a quei giovani che in questi ultimi anni hanno prestato la propria attività come veri e propri lavoratori subordinati, nonostante fossero a tutti gli effetti dei lavoratori autonomi. Una modalità, quest’ultima, molto praticata soprattutto nel Pubblico impiego. A livello territoriale è stata la Sardegna a registrare la caduta occupazione più forte tra gli autonomi (-15 per cento). Male anche la Calabria (-13,1 per cento) e la Valle d’Aosta (- 12,5 per cento). Segno positivo, invece, solo per il Veneto (+0,4 per cento) e l’Abruzzo (+0,9 per cento).Una situazione di difficoltà che, purtroppo, ha mantenuto la pressione fiscale media a carico di queste piccolissime realtà attorno al 50 per cento. A differenza dei lavoratori dipendenti quando un autonomo chiude l’attività non dispone di alcuna misura di sostegno al reddito. Ad esclusione dei collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum, le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e di alcuna forma di cassa integrazione o di mobilità lunga o corta. Spesso si ritrovano solo con molti debiti da pagare e un futuro tutto da inventare. I sindacati lo sanno? Sembrerebbe di no.
Considerare la mobilità dei giovani in modo positivo
La politica non è in ascolto di questi giovani adulti e non sta provando a curare un’emorragia che non accenna a diminuire. L’approccio è quello di considerare la mobilità dei giovani in modo positivo, esattamente come per il programma Erasmus, diventato il principale elemento di mobilità negli studi. Il tema che si pone è che il paese ha una bilancia del capitale umano negativa. Molti partono e vanno in altre comunità, ma pochi sono quelli che vengono in Italia. In questo modo, l'investimento in capitale umano e in conoscenza fatto con l’istruzione universitaria e superiore diventa un investimento a perdere, che va a generare valore aggiunto altrove. Se la mobilità è a senso unico, allora questo genera anche impoverimento del tessuto umano e competitivo del paese. I giovani partono perché in Italia non riescono ad avere stabilità economica. C’è una difficoltà reale a trovare spazio in Italia, ma c'è soprattutto anche la necessità di accompagnare e orientare le scelte formative dei ragazzi, che in molti casi sono senza prospettive e futuro.
Il 53% di chi cerca lavoro lo fa ormai da almeno 12 mesi. Peggio di noi in Europa hanno fatto solo Grecia e Croazia. La condizione più critica è quella della fascia dei 25-29enni, quelli che vivono la fase di transizione dall’università al mercato del lavoro.
Sogni e progetti di vita vengono per il momento congelati nella speranza che qualcosa prima o poi cambierà. Tra i laureati la disoccupazione è più contenuta. L’istruzione assicura ancora maggiori chance, ma tende anche a prolungare i tempi di stabilizzazione rischiando più degli altri di dover adattare al ribasso le proprie aspettative e di restare intrappolato in una condizione di sottoinquadramento professionale. L’Italia d’altronde è tra gli ultimi Paesi comunitari per impiego di capitale umano qualificato nel processo produttivo. La laurea ha uno scarso rendimento economico, cosa che spinge i giovani più formati al trasferimento verso Paesi in grado di valorizzare meglio le competenze acquisite.
Negli ultimi anni chi ha molto patito è la “generazione x”, entrata nel mondo del lavoro nella seconda metà degli anni ‘90, quando il rapporto tra il debito pubblico e il Pil ha superato il 100% e si è messo mano al mercato del lavoro, con il pacchetto Treu, aprendo a una maggiore flessibilità senza però investire nelle politiche attive. Questo ha spiazzato i giovani e li ha portati a difendersi anziché a dare il meglio di sé, costringendoli ad appoggiarsi alle famiglie.
Di seguito è stata la volta della generazione dei “Millennials”, quelli nati dal 1982 in poi, che oggi tentano di entrare nel mondo del lavoro, i cosiddetti nativi digitali, abituati a un mondo globalizzato e a cooperare in Rete, convinti di avere migliori competenze rispetto alle generazioni precedenti. Il vantaggio di cui godono è di aver visto già le difficoltà della precarietà sui fratelli. Rispetto alla “generazione x”, già alle superiori questi sapevano che ad aspettarli c’era una realtà difficile. Ma tra loro è anche più forte la voglia di emergere e mostrare quanto valgono. La sfortuna è che hanno incontrato la crisi economica e la realtà che si sono trovati davanti è peggiore di quanto si aspettassero.
I ragazzi sono disincantati, ma non completamente rassegnati. Nel breve periodo accettano lavori sottopagati e non in linea con i propri studi pur di lavorare. Nel medio periodo puntano a scelte di vita importanti, come creare una famiglia e avere dei figli. Fare il lavoro dei propri sogni è stato spostato come obiettivo di lungo periodo. Sono scelte adattive.
Aumentano così tra i giovani i lavori part time involontari o coloro che puntano a mettersi in proprio come scelta alternativa se non si trova il lavoro che si sogna nel mondo del lavoro subordinato. Per entrambe le categorie il lavoro non è una assicurazione di benessere: i working poor sono più di 2 milioni e sono soprattutto giovani.
Non a caso, i matrimoni in Italia sono calati a un ritmo del 5 % annuo e si è toccato il punto più basso delle nascite nella storia della Repubblica italiana.
Allora ecco perché l’80% dei giovani sostiene che la scelta più giusta per migliorare la propria condizione sia quella di andarsene all’estero. Ma sono davvero disposti a partire?
Quanto vive una startup?
Nel 2005, c’era “Generazione Mille Euro”, nel 2015 “La Repubblica degli Innovatori”.
Sono cinque le mosse da fare per guardare al 2020 con la testa alta: condividere; sperimentare; digitalizzare; rispettare; liberare.
Condividere significa fare impresa con altre persone, co-fondare una startup, non pensare che sia il tempo dell’uomo solo al comando. Servono più esperienze e più teste, secondo quell’antimatematico principio che uno più uno è maggiore di due, quando si parla di cervelli. Significa dare valore alle persone, prima che alle idee, consci del fatto che è l’execution a prevalere sulla idea tout-court.
Sperimentare ci porta nel terreno dell’innovazione, dello smettere di fare le cose come le abbiamo sempre fatte sperando che i risultati possano essere differenti. Ci porta anche sul terreno del rischio, l’unico su cui si può giocare la partita oggi, con la coscienza del fatto che il fallimento è un’opzione da contemplare, di cui non vergognarsi, anzi da facilitare se necessario.
Digitalizzare è l’unica possibilità per combattere la sfida globale alla italiana maniera: think local, act global, pensa qui ma poi porta il tuo prodotto in tutto il mondo, grazie appunto al digitale. È la maniera antitetica, rispetto a ciò che gli americani hanno promosso (la loro filosofia è: think global, act local), per affrontare la globalizzazione e vincere la nostra sfida nel mondo.
Rispettare è un verbo che pochi collegano all’impresa ma che invece rappresenta la nuova visione di impresa dei più giovani: rispetto per l’ambiente, per le persone, per i tempi, per le diversità. A ognuno il suo modo di essere e di fare, in un’impresa che torna a essere motore di cambiamento sociale come fu con Adriano Olivetti.
Liberare è la sfida più dura, perché spetta a governo, pubblica amministrazione, enti locali: smettete di fare leggi. Cancellatele, le troppe, inutili e cavillose leggi che avete creato in questi anni. Siamo prigionieri di burocrazia, imposizione fiscale e ostracismo nei confronti degli imprenditori. Tagliate seriamente le tasse, l’Ires deve andare a zero per tre anni per tutte le nuove imprese e poi fermarsi al 12-13%, il cuneo fiscale ridotto in maniera permanente a vantaggio di datore di lavoro e lavoratore. E poi la burocrazia va azzerata, la P.A. deve diventare servizio per l’impresa e non controparte, antagonista o addirittura nemico.
Non sono cose difficili da fare, non sono cose che possiamo negoziare, vanno fatte così, punto e basta. Perché altrimenti le quattro mosse precedenti diventano innocue, inutili. Noi siamo pronti a farlo, non vogliamo aiuti ma solo libertà d’azione. Non è poco, ma siamo pronti a dare tanto: è la Repubblica degli Innovatori, quella che possiamo costruire assieme, non costringeteci a farlo altrove.Nel primo trimestre del 2019 le “start up” guidate da giovani (titolari e amministratori) con meno di 30 anni ammontavano a poco meno di 300 mila unità.
1. Il prodotto deve essere perfetto per il mercato. La ragione fondamentale per cui si fallisce è realizzare prodotti che nessuno vuole (42%).
2. L’imprenditore non trascura alcun dettaglio. Una buona idea di prodotto e un team di tecnici competente non garantiscono un business sostenibile. Cosa manca? Sottovalutare “le cose noiose”. Il CEO pensa “Il mio compito è dirigere”. Il CMO pensa “Il mio compito è vendere”. Il lead developer pensa, “Il mio compito è codificare”. Le cose sono ben più interconnesse in una startup, i ruoli e le responsabilità spesso si sovrappongono. Le cose piccole possono diventare grandi. Si deve lavorare sul proprio obiettivo di business e non nel proprio business.
3. L’azienda deve cresce velocemente. Se non ha una crescita altamente accelerata non è in grado di assicurarsi i capitali per gli stadi successivi. E ciò è l’inizio della fine. Se la crescita non si verifica dopo un certo quantitativo di tempo, allora la crescita non si verificherà affatto. Un’azienda che non cresce si sta in pratica riducendo.
4. Il team deve sapere come recuperare. Ogni startup ha alle spalle un team di persone. Più versatili sono tali persone, più probabilità di successo si hanno. È una questione di attitudine mentale. I team delle startup devono possedere la capacità di cambiare i prodotti, adeguarsi a piani di compensazione diversi, intraprendere nuovi approcci al marketing, cambiare settore, ri-brandizzare l’attività o addirittura mandare all’aria l’attività stessa e ricominciare da capo. Tutto sta nel riprendersi dagli scossoni.
Conclusioni: 1 su 10 ce la fa.
Una situazione di difficoltà che, purtroppo, ha mantenuto la pressione fiscale media a carico di queste piccolissime realtà attorno al 50 per cento. A differenza dei lavoratori dipendenti quando un autonomo chiude l’attività non dispone di alcuna misura di sostegno al reddito. Ad esclusione dei collaboratori a progetto che possono contare su un indennizzo una tantum, le partite Iva non usufruiscono dell’indennità di disoccupazione e di alcuna forma di cassa integrazione o di mobilità lunga o corta. Spesso si ritrovano solo con molti debiti da pagare e un futuro tutto da inventare. I sindacati lo sanno? Sembrerebbe di no.
Una “società parassita di massa” dove in pochi lavorano e molti consumano“Altro che modello Italia, rischiamo di diventare una società di parassiti”. Un’Italia che cerca faticosametne di ripartire tra mille difficoltà, messa in ginocchio da una crisi economica alla quale il governo non ha ancora saputo trovare risposte adeguate e da un’emergenza sanitaria tutt’altro che archiviata. E che rischia di trasformarsi, di questo passo, in una “società parassita di massa”, dove in pochi lavorano e molti consumano. A lanciare l’allarme, attraverso le pagine de Il Giornale, è stato il sociologo Luca Ricolfi, che si è concentrato innanzitutto sulla riapertura delle scuole: “È arrivato il momento di ripensare il settore dell’istruzione? Veramente è mezzo secolo che sarebbe arrivato il momento. Magari non concentrandosi solo su edilizia e precari ma anche sul problema dell’abbassamento della qualità dei docenti, che rischia di peggiorare ancora con la didattica a distanza”. Si può ancora parlare, in epoca Covid-19, di “modello Italia” da imitare? “Sconsiglierei gli altri Paesi dal farlo. Il nostro è un modello fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al quarto posto in Europa come numero di morti per abitante e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano? Se dovessi additare dei modelli citerei piuttosto la Germania o la Corea del Sud”. “Di sicuro – ha aggiunto Ricolfi – anche quando la pandemia sarà sparita il mondo occidentale si troverà ad aver perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina. Sul fatto che si possa tornare al passato, poi, ho i miei dubbi. L’Italia era già una ‘società signorile di massa’ in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare falle, senza creare le condizioni per una ripartenza. Sarebbe servito, piuttosto, creare un ambiente adatto affinché i produttori restino sul mercato. L’alternativa è diventare una società parassita di massa, in cui una piccola minoranza lavora e una maggioranza vive di trasferimenti”. Il governo Conte? Per Ricolfi è un “mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo. Le possibili conseguenze delle Regionali? Non mi stupirei se i giallorossi restassero abbarbicati al potere di fronte a un vuoto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6”.
Ultimi anche nel meritometro
Un nuovo indice misura la meritocrazia in Italia. Il meritometro è stato elaborato da fonti autorevoli, Ocse, Eurostat, Trasparency.org, Economist, Wall Street Journal, Heritage Foundation. Risultato? Siamo la peggiore delle nazioni europee per almeno sette aspetti: libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività dei talenti, struttura delle regole, trasparenza e mobilità sociale. Spagna, Polonia, Francia, Austria, per non parlare delle irraggiungibili Germania e dei Paesi scandinavi, sono lontani sia che si tratti di corruzione che della possibilità per chi viene da una famiglia povera di salire di livello nel grado di istruzione. Peggio ancora le cose vanno sul fronte delle pari opportunità soprattutto per i giovani, sul grado di apertura dei mercati, sulla corruzione.
Il vero punto dolente sono i giovani, sono il capitale umano su cui investire, per questo sarebbe necessario insegnare a scuola educazione civica al merito, spiegando che cos’è il merito e come si declina. Ma questo nella scuola dove l’appiattimento è visto come pratica di eguaglianza, sarà impossibile.
Non va meglio con le imprese. Il nostro è il paese dove nei cda si entra, per il peso delle quote azionarie, perché si è membri della famiglia proprietaria o su nomina politica (soprattutto nel caso delle municipalizzate e altre partecipate pubbliche).
Non va meglio con l’Università che dovrebbero essere incubatori di talenti. La meritocrazia non è vista bene né dalla destra né dalla sinistra.
Il Jobs Act e la Buona scuola sono state due occasioni perse. Il primo non premia il merito al più punisce il demerito. La seconda ha visto l’inserimento di 150mila docenti in ruolo, senza che sia stato rispettato un criterio meritocratico.Che cosa possiamo aspettarci dal prossimo futuro?
Lo Stato Sociale ha ridotto il senso di responsabilità
Il vero punto dolente sono i giovani, sono il capitale umano su cui investire, per questo sarebbe necessario insegnare a scuola educazione civica al merito, spiegando che cos’è il merito e come si declina. Ma questo nella scuola dove l’appiattimento è visto come pratica di eguaglianza, sarà impossibile.
Non va meglio con le imprese. Il nostro è il paese dove nei cda si entra, per il peso delle quote azionarie, perché si è membri della famiglia proprietaria o su nomina politica (soprattutto nel caso delle municipalizzate e altre partecipate pubbliche).
Non va meglio con l’Università che dovrebbero essere incubatori di talenti. La meritocrazia non è vista bene né dalla destra né dalla sinistra.
Il Jobs Act e la Buona scuola sono state due occasioni perse. Il primo non premia il merito al più punisce il demerito. La seconda ha visto l’inserimento di 150mila docenti in ruolo, senza che sia stato rispettato un criterio meritocratico.Che cosa possiamo aspettarci dal prossimo futuro?
Lo Stato Sociale ha ridotto il senso di responsabilità
Lo Stato Sociale ha ridotto, il senso di responsabilità, la propensione a mettere in gioco se stessi, il gusto alle sfide personali. Il cittadino è stato indotto a scaricare il peso di risolvere i problemi su qualcun altro. Su quel soggetto impersonale, indefinito, padre, tutore, padrone, che dirige, elargisce doni, protegge, controlla, spia, giudica, condanna e punisce, cioè sullo Stato: è proprio questa la Via della Schiavitù. La pianificazione centralizzata è la principale causa della crisi economica. La crisi economica non è frutto della mancanza di intervento pubblico nell'economia, ma di un eccessivo intervento negli anni precedenti la crisi, tale da esaurire le risorse necessarie per fronteggiare il ciclo economico negativo. I sistemi totalitari non comunisti (nazismo e fascismo in primo luogo) sono una forma evoluta di socialismo: una sorta di "socialismo della classe media". Esiste una incompatibilità fra la pianificazione centralizzata dell'economia, pur spinta dal desiderio di creare una società egualitaria, e la libertà individuale. Qualsiasi sistema basato su qualsiasi forma di collettivismo ha bisogno per sopravvivere di un'autorità centrale. Un sistema socialista richiede un piano economico centrale inevitabilmente totalitarista, perché ha bisogno di sempre maggiore forza per controllare e dirigere la vita socio-economica di un paese, mentre tutte le informazioni relative ad un qualsiasi sistema sono necessariamente decentralizzate. Qualsiasi economia centralizzata e pianificata, ossia decisa a tavolino da un individuo o da un gruppo di individui, i quali decidono la distribuzione delle risorse, è perdente in partenza, in quanto un unico individuo o un gruppo di individui, dall'alto della loro posizione centrale e centralizzata, non hanno abbastanza informazioni per creare un'allocazione ottimale delle risorse. L'unico sistema in grado di dare un'allocazione ottimale alle risorse è il sistema di prezzi liberi tipico del libero mercato. Il meccanismo di prezzi liberi consente l'unione e la condivisione di conoscenze locali e personali, attraverso il principio di auto-organizzazione. Il sistema dei prezzi è un meccanismo perfetto per comunicare informazioni con la velocità del vento anche nelle regioni più remote. Il ruolo destinato allo Stato è il mantenimento dello Stato di diritto, dell'ordine legale necessario per permettere la libera e pacifica convivenza tra individui. La civilizzazione dipende dall'espansione della proprietà privata.
LA SCUOLA INUTILEIn
queste 130 pagine sono raccolti e sistematizzati circa 80 post
pubblicati sul blog LA VERITA' PER FAVORE
(https://civicnessitalia.blogspot.com/) sui temi della disoccupazione,
della GIG Economy e della scuola. Oggi
la disoccupazione giovanile è un tema cruciale della società e
dell'economia.
Fa da contraltare a ciò una nuova economia dei "lavoretti" provvisori
a cui i giovani sono costretti e la cui dimensione, in continua
crescita, ha
finito per creare una sorta di economia parallela, legata in particolare
al
web, la cosiddetta GIG Economy. Ma quali sono le cause di tutto ciò? Una
in
particolare viene esaminata più a fondo: la crescente inadeguatezza del
sistema
formativo. Un mondo a sé stante, elefantiaco ed autoreferenziale,
costosissimo
e dannoso, praticamente irriformabile, che continua ad insegnare saperi
obsoleti secondo una logica prenovecentesca che non permette la
comprensione
della realtà che ci circonda e che non fornisce conoscenze ed abilità
utili per
essere inseriti nel mondo del lavoro. Questa è la scuola inutile. Come
può
cambiare? Viene presentata la traccia di un radicale riforma,
contenutistica e
metodologica, in cui imparare e lavorare non sono più visti come termini
in
contrasto ed in successione, ma come due facce contemporanee della
stessa
medaglia.
In queste 130 pagine sono raccolti e sistematizzati circa 80 post pubblicati sul blog LA VERITA' PER FAVORE (https://civicnessitalia.blogspot.com/) sui temi della disoccupazione, della GIG Economy e della scuola. Oggi la disoccupazione giovanile è un tema cruciale della società e dell'economia. Fa da contraltare a ciò una nuova economia dei "lavoretti" provvisori a cui i giovani sono costretti e la cui dimensione, in continua crescita, ha finito per creare una sorta di economia parallela, legata in particolare al web, la cosiddetta GIG Economy. Ma quali sono le cause di tutto ciò? Una in particolare viene esaminata più a fondo: la crescente inadeguatezza del sistema formativo. Un mondo a sé stante, elefantiaco ed autoreferenziale, costosissimo e dannoso, praticamente irriformabile, che continua ad insegnare saperi obsoleti secondo una logica prenovecentesca che non permette la comprensione della realtà che ci circonda e che non fornisce conoscenze ed abilità utili per essere inseriti nel mondo del lavoro. Questa è la scuola inutile. Come può cambiare? Viene presentata la traccia di un radicale riforma, contenutistica e metodologica, in cui imparare e lavorare non sono più visti come termini in contrasto ed in successione, ma come due facce contemporanee della stessa medaglia.
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