Corso di politica formativa ed occupazionale: Lezione 4 LA SCUOLA INUTILE
https://youtu.be/jFdDUIVxQhc
INDICE DESI
Indice dell'economia e della società digitali
L' indice dell'economia e della società digitale (DESI) monitora le prestazioni digitali complessive dell'Europa e tiene traccia dei progressi dei paesi dell'UE per quanto riguarda la loro competitività digitale. Su base annuale, monitora le prestazioni degli Stati membri in materia di connettività digitale, competenze digitali, attività online e servizi pubblici digitali al fine di valutare lo stato della digitalizzazione di ciascuno Stato membro e identificare le aree che richiedono investimenti e azioni prioritari .
DESI comprende 5 dimensioni ed i relativi pesi di importanza:
·Connettività (banda larga fissa e mobile, prezzi) 0.25
·Capitale umano (uso di Internet, competenze digitali di base e avanzate) 0.25
·Utilizzo dei servizi Internet (utilizzo dei contenuti da parte dei cittadini, comunicazione, transazioni online) 0.15
·Integrazione della tecnologia digitale (digitalizzazione aziendale, e-commerce ) 0.20
La dimensione connettività dell'indice DESI tiene conto sia della banda larga fissa che mobile . Nel primo caso valuta la diffusione della banda larga complessiva e ultraveloce di almeno 100 Mbps, la disponibilità della banda larga veloce con l'accesso di nuova generazione e delle reti fisse ad altissima capacità (VHCN). Inoltre, considera i prezzi delle offerte al dettaglio. Quest'ultimo, essendo la banda larga mobile, riguarda la copertura 4G , l'adozione della banda larga mobile ( 3G e 4G) e la disponibilità del 5G .
Le implementazioni di reti a banda larga devono tenere il passo con il traffico Internet in rapida crescita su reti fisse e mobili. Sebbene l'Unione europea disponga di una copertura completa dell'infrastruttura a banda larga di base, solo il 44% delle famiglie beneficia della connettività VHCN, che consiste nelle tecnologie Fiber to the x (FTTX) e cavo DOCSIS 3.1. Poiché FTTX e cavo si concentrano principalmente nelle aree urbane, la connettività nelle aree rurali rimane bassa con il 20% delle famiglie. I paesi che ottengono i migliori punteggi in termini di copertura VHCN, ovvero più del 90% di copertura, sono Danimarca, Lussemburgo e Malta. Al contrario, in Grecia, Regno Unito, Cipro e Austria, meno del 20% delle famiglie ha accesso.
Nel 2016, la Commissione europea ha adottato il piano d'azione 5G per l'Europa e ha fornito l'obiettivo di distribuire servizi di rete 5G in tutti i paesi europei verso la fine del 2020. Il 5G consente una larghezza di banda molto elevata e una connettività a bassa latenza per gli utenti di Internet e per oggetti. L'adozione dello spettro 5G funge da prerequisito necessario per il lancio commerciale del 5G in ogni Stato membro. Finora, solo 17 paesi membri hanno assegnato uno spettro 5G e solo il 21% dell'importo totale dello spettro 5G è stato assegnato a livello dell'UE. I paesi più performanti includono Germania, Italia, Finlandia e Ungheria.
Capitale umano
La pandemia di COVID-19 ha dimostrato quanto sia diventata importante la digitalizzazione per le nostre economie e come le competenze digitali di base e avanzate abbiano la capacità di sostenere le nostre società. Mentre l'85% dei cittadini dell'UE utilizzava Internet prima della pandemia di coronavirus, solo il 58% possedeva al massimo alcune competenze digitali di base, che fungono da spina dorsale della società digitale in quanto senza competenze digitali, non si può beneficiare appieno dell'uso delle tecnologie digitali . La pandemia potrebbe aver influito positivamente sul numero di utenti di Internet, ma lo sviluppo delle competenze digitali non è stato naturale. Mentre le competenze di utilizzo di base consentono alle persone di prendere parte alla società digitale e consumare beni e servizi digitali, le competenze avanzate possono aiutare a responsabilizzare la forza lavoro per sviluppare nuovi beni e servizi digitali.
La dimensione del capitale umano dell'indice è suddivisa in due sottodimensioni che coprono le competenze degli utenti di Internet e le competenze e lo sviluppo avanzati. Il primo è una versione dell'indicatore delle competenze digitali della Commissione, calcolato in base al numero e alla complessità delle attività che comportano l'uso di dispositivi digitali e Internet. Quest'ultima sottodimensione riguarda la forza lavoro e il suo potenziale per lavorare e sviluppare l'economia digitale. Questo tiene conto della quota di persone nella forza lavoro che pone competenze specialistiche ICT e include un indicatore separato sulle donne specialisti ICT. Allo stesso tempo, esamina la quota di laureati in TIC.
Uso dei servizi Internet
Per quei cittadini che dispongono di una connessione a Internet e delle competenze necessarie per usufruirne, è possibile svolgere una gamma molto ampia di attività online. Prima della pandemia di COVID-19 , già l'85% dei cittadini utilizzava già Internet, ma questa crisi ha contribuito ad aumentare questa percentuale insieme alle interazioni che questi utenti effettuano sulla rete. Questa dimensione del DESI calcola la quantità di persone che utilizzano Internet e quali attività svolgono online. Tra questi, alcuni esempi sono il consumo di contenuti online (es. intrattenimento come musica, film, TV o giochi, ottenere informazioni multimediali o impegnarsi in interazioni sociali online), utilizzando moderne attività di comunicazione (es. partecipare a videochiamate), e attività di transazione come acquisti online e operazioni bancarie.
Nell'UE ci sono ancora molte differenze tra i paesi membri per quanto riguarda l'uso dei servizi Internet. Finlandia, Svezia, Paesi Bassi e Danimarca sono i paesi con gli utenti Internet più attivi, seguiti da Regno Unito, Malta, Estonia e Irlanda. Romania, Bulgaria e Italia sono invece le meno attive. Irlanda e Spagna sono stati gli Stati membri che hanno registrato il maggiore miglioramento in questa dimensione rispetto agli anni precedenti.
L'utilizzo di Internet per ascoltare musica, giocare o guardare video è ancora l'attività più comune (81% delle persone che hanno utilizzato Internet negli ultimi 3 mesi). La lettura delle notizie in linea è la seconda attività più seguita dal DESI (72%), mentre i due terzi degli internauti fanno acquisti (71%) o effettuano operazioni bancarie online (66%).
Integrazione della tecnologia digitale
Le tecnologie digitali consentono alle aziende di ottenere un vantaggio competitivo migliorando i propri servizi, prodotti ed espandendo i propri mercati. Questa trasformazione digitale delle imprese favorisce lo sviluppo di tecnologie nuove e affidabili e allo stesso tempo rivela loro nuove opportunità. Questa dimensione del DESI misura la digitalizzazione delle aziende e delle attività di e-commerce.
I migliori sono Irlanda, Finlandia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia con punteggi superiori a 55 punti (su 100). All'altra estremità della scala, Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Grecia e Lettonia sono ultime con punteggi inferiori a 35 punti, significativamente al di sotto della media UE, che è di 43 punti.
I paesi leader nella "digitalizzazione aziendale 4a" (ovvero condivisione elettronica delle informazioni, social media, big data e cloud) sono Finlandia, Paesi Bassi e Belgio, con punteggi superiori a 60 punti. Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania, Lettonia e Slovacchia sono in ritardo nell'adozione delle tecnologie di e-business, con un punteggio inferiore a 40 punti. Irlanda, Cechia, Danimarca, Belgio e Svezia sono i primi cinque paesi in "e-commerce 4b" (cioè PMI che vendono online, fatturato e-commerce e vendita online transfrontaliera), con punteggi superiori a 60 punti. L'Irlanda è in testa in tutti e tre gli indicatori per l'e-commerce, mentre Bulgaria, Grecia, Lussemburgo e Romania sono i paesi peggiori con punteggi inferiori a 25 punti.
Servizi pubblici digitali
L'ultima parte del DESI ruota intorno all'e-Government. Più specificamente, sta misurando il lato della domanda e dell'offerta di servizi pubblici digitali, dati aperti , moduli precompilati, completezza del servizio online, centralità dell'utente, fattori abilitanti chiave come l'identificazione elettronica, documenti elettronici, fonti autentiche e posta digitale e alcuni altri indicatori .
DESI 2019
1. Finlandia
2. Svezia
3. Olanda
4. Danimarca
5. Regno Unito
6. Lussemburgo
7. Repubblica d'Irlanda
8. Estonia
9. Belgio
10. Malta
11. Spagna
12. Germania
13. Austria
14. Lituania
15. Francia
16. Slovenia
17. Lettonia
18. Repubblica Ceca
19. Portogallo
20. Ungheria
21. Slovacchia
22. Cipro
23. Croazia
24. Italia
25. Polonia
26. Grecia
27. Romania
28. Bulgaria
Il 40% della disoccupazione giovanile italiana dipende dal mancato collegamento tra scuola e lavoro
Secondo la McKinsey (la multinazionale di management consulting più famosa del mondo) il 40% della disoccupazione giovanile italiana dipende dal mancato collegamento tra scuola e lavoro e da un orientamento scolastico quasi inesistente. Tra il milione e centomila disoccupati italiani tra i 15 e i 29 anni, 450 mila avrebbero un lavoro se la scuola avesse fornito loro gli strumenti giusti. Nella maggior parte dei Paesi europei il rapporto tra disoccupazione giovanile e adulta è 2 a 1, mentre in Italia è 3,5 a 1, la quota eccedente rispetto a questo livello europeo dipende da inefficienze proprie del nostro sistema di formazione e transizione dalla scuola al lavoro. La formazione del capitale umano va rimodulata per farla diventare un fondamentale volano per la crescita economica e sociale dell'Italia. Oggi esiste invece un’alleanza perversa tra corporativismo e burocrazia che costituisce un freno allo sviluppo del nostro paese. O si investe in una formazione differente dall’attuale o non riusciremo a restare competitivi. Il ritardo dipende dal nostro sistema educativo inutilmente lungo e poco orientato alle competenze. Insomma i nostri studenti escono dalla scuola troppo “vecchi” e senza “sapere fare” praticamente nulla di quanto richiesto dal mondo del lavoro. Una scuola finanziata con i soldi della collettività deve recuperare questo gap. L’orientamento va introdotto obbligatoriamente in tutti i livelli di istruzione, per illustrare percorsi formativi di scuole e università e relativi sbocchi professionali. L’alternanza scuola-lavoro va completamente ripensata nelle modalità e nei contenuti, va introdotta a tutti i livelli di istruzione, rafforzata nei periodi estivi, con speciale attenzione negli ultimi 3 anni di istruzione superiore, per favorire un nuovo rapporto tra scuola e impresa, strategico per combattere la disoccupazione giovanile. Va semplificato l’apprendistato di primo, secondo e terzo livello; va incentivato l’Erasmus aziendale e i percorsi di laurea in apprendistato; vanno anticipati tirocini e praticantati durante gli studi universitari; vanno potenziati servizi di placement nelle scuole superiori e università. Vanno focalizzate le risorse per i nuovi ITS tenendo conto delle vocazioni produttive del territorio, favorendo la presenza delle associazioni imprenditoriali nelle Fondazioni ITS ed incentivando le imprese che investono in formazione scolastica e universitaria. L'iper-centralismo del Miur va mitigato. Il governo del ministero deve diventare di sistema e a distanza, con compiti di finanziamento, indirizzo, controllo e valutazione dei risultati, ma non deve gestire le singole scuole che devono essere autonome e responsabili della gestione didattica, organizzativa e finanziaria. Va riformata radicalmente la modalità di reclutamento dei dirigenti scolastici a cui vanno affidati maggiori poteri nella gestione di risorse umane e finanziarie, permettendo di scegliere organico e insegnanti abilitati dal ministero. Vanno riformati i meccanismi per l'immissione in ruolo degli insegnanti, abolendo le graduatorie per anzianità, assumendo per concorso e per chiamata diretta premiando il merito. Va rimodulata la retribuzione docente in base a orario di servizio, funzioni e conseguimento di obiettivi specifici. Va data completa autonomia all'università ridefinendo i rapporti tra Senato Accademico e Cda. Vanno premiati gli atenei eccellenti per didattica e ricerca aumentando la quota premiale sul Fondo di Finanziamento Ordinario. Va abolito il valore legale del titolo di studio sostituendolo con un sistema di certificazione delle competenze acquisite dopo un percorso di studio, dando vita a un rigoroso Sistema Nazionale di Valutazione.
Il nostro è il quarto Paese Ocse per la maggiore incidenza di adulti con problemi di corretta comprensione delle informazioni
Il nostro è il quarto Paese Ocse per la maggiore incidenza di adulti con problemi di corretta comprensione delle informazioni. Fanno peggio solo Indonesia, Turchia e Cile
Come può una comunità riunire le forze e lavorare alla realizzazione di una società diversa – magari migliore – se non è in grado di comprendere neanche le dinamiche di base di quella in cui vive nel presente? È un dilemma che si pone in tutta la sua forza guardando a quella che è emersa dal Forum Ambrosetti come «la più grande emergenza dell’Italia». L’analfabetismo funzionale.
«Per analfabetismo funzionale – precisano dall’Ambrosetti club – intendiamo l’incapacità di usare in modo efficace le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Si traduce, in pratica, nell’incapacità di comprendere, valutare e usare le informazioni che riguardano l’attuale società».
È un problema che si scontra in pieno con la natura stessa dello sviluppo sostenibile, inevitabilmente complessa, ma anche con un semplice dato di fatto: a seguito della rivoluzione digitale la stragrande maggioranza dei dati mai creati dall’homo sapiens, è stata creata negli ultimi anni (basta un intervallo stimato tra due e dieci anni per arrivare al 90% di tutti i dati). Una sovrabbondanza che la nostra specie non ha mai dovuto affrontare prima e che, senza gli strumenti cognitivi adeguati per farvi fronte, trasforma una realtà complessa in una complicata, impossibile da decifrare. E quanto non si conosce, come sappiamo, spaventa. In media 1 giovane italiano su 5 abbandona la scuola secondaria di primo grado senza concluderla, l’Italia è il penultimo Paese europeo per quota di popolazione totale laureata ed è anche quello in cui meno di 1 adulto su 10 partecipa ad attività di apprendimento permanente. Ma il problema principale dell’analfabetismo funzionale non stata tanto nel titolo di studio, quanto nell’incapacità districarsi nella complessità quotidiana della vita. Da un’elaborazione The European House – Ambrosetti su dati indagine Ocse-Piaac (edizione 2016) emerge infatti chiaramente che «l’Italia è quarta tra i Paesi Ocse per la maggiore incidenza di adulti con problemi di corretta comprensione delle informazioni». Guardando alle competenze di literacy, solo Indonesia, Turchia e Cile fanno peggio. In altre parole più di sette italiani su dieci – contro una media Ocse del 49% – sono analfabeti funzionali o hanno capacità cognitive e di elaborazione minime, come mostrano in dettaglio le indagini Isfol-Piaac sulle competenze degli adulti (16-65enni) di cui abbiamo già dato conto su queste pagine grazie al supporto di Vittoria Gallina, che ha lavorato da vicino all’elaborazione di questi report. Non c’è sviluppo sostenibile possibile, dunque, senza un’educazione preliminare alla complessità. Che riguardi sì la cittadinanza ma anche e soprattutto le classi dirigenti (pubbliche e private) che questa esprime: «L’assenza di “capitale culturale” è il primo e più grave fattore che rallenta il processo di cambiamento di cui l’Italia ha bisogno», scandiscono dall’Ambrosetti.Come rimediare? Una bacchetta magica non c’è, a proposito di complessità. Dall’Ambrosetti propongono piuttosto un percorso sintetizzato in quattro punti:
Revisione del sistema scolastico (maggior spazio per le discipline chiave e interdisciplinari per la formazione personale e la crescita professionale dei giovani; rafforzamento del ruolo degli Istituti Tecnici e Professionali Secondari; meccanismi premiali per gli insegnanti e i dirigenti scolastici secondo criteri meritocratici; investimenti nell’edilizia scolastica).
Revisione del sistema universitario (tematizzazione degli atenei in chiave 5.0; potenziamento di soft skill e competenze multidisciplinari e maggiore permeabilità dei docenti con il mondo esterno; raddoppiamento del Fondo di Finanziamento Ordinario a 0,9% del PIL; piano di rilancio per il Sistema Universitario del Sud Italia).
Educazione continuativa degli adulti (programma nazionale per l’apprendimento permanente degli adulti; collaborazione con il servizio pubblico radiotelevisivo per colmare il divario degli adulti sulle competenze culturali e digitali di base).
Preparazione della classe dirigente (grande programma per formare la futura classe dirigente del Paese, pubblica e privata).
«L’Italia, da decenni è prigioniera di un circolo vizioso – sostenuto dall'analfabetismo funzionale – che non le permette di realizzare i cambiamenti strutturali di cui ha bisogno. Questo circolo vizioso – concludono dall’Ambrosetti – va interrotto con un massiccio investimento sull'educazione in genere, per costruire un sistema educativo che prepari tutti (giovani e adulti) a vivere la vita dei nostri tempi e che formi una classe dirigente adeguata».
Un Paese che non produce conoscenza
Siamo un Paese che non produce conoscenza, che non trasmette conoscenza e che non sa che farsene di quella che ha.
Siamo ultimi in Europa per percentuale di popolazione dai 25 ai 64 anni con in mano almeno una laurea, meno del 20% della popolazione. Negli Stati Uniti ed nel Regno Unito, alla laurea ci è arrivato il 46%.
I laureati in Italia non li vuole nessuno, perché abbiamo un sistema produttivo che non sa che farsene e se li assume li demansiona. Siamo l’unico paese tra i grandi d’Europa ad aver visto decrescere le professioni a media alta qualifica: meno del 40% dei posti disponibili.
Nelle risorse umane impiegate nella scienza e nella tecnologia ci posizioniamo al terzultimo posto. Pur vivendo nell’era digitale del tecnocene non siamo in grado né di formare addetti in questi ambiti, né di orientare gli studenti in quella direzione. Nei programmi elettorali si legge che la scuola “non” deve formare al lavoro, ma al “sapere”. Ma su cosa, come e a che fine, si glissa.
La scuola ha smesso di essere un ascensore sociale. Siamo un paese con meno studenti universitari, se i genitori non lo sono stati. I neolaureati in Italia appartengono, nella stragrande maggioranza dei casi, a uno strato sociale che già era ricco o benestante.
Nonostante ciò ci ostiniamo a ritenere il nostro sistema formativo il migliore di tutti nonostante i disastri nei test di valutazione comparati Pisa dell’OCSE.
Sul piano dell'istruzione la borghesia vuole poche semplici cose: privatizzazione, concorrenza, contenuti scolastici improntati al "saper fare", personale educativo "selezionato", il tutto funzionale al modello sociale neoliberista della flessibilità.
Occorre un dibattito che dica cosa vogliamo dalla scuola. Ragazzi semplicemente istruiti? O anche in grado di saper lavorare con gli altri, capaci di imparare per tutta la vita, competenti?
In Italia abbiamo una delle scuole più costose, spendiamo per ogni studente della fascia dell'obbligo il 20 % in più della media europea: la nostra scuola pensa ai giovani più come a bottiglie da riempire di nozioni, che come a candele da accendere di intelligenza.
I quattro pilastri indicati dall'Unesco sono: imparare a conoscere, a fare, a vivere con gli altri, a sviluppare le proprie capacità personali.
In Italia esiste l'Istituto nazionale per la valutazione, che dovrà riguardare anche gli insegnanti, con un aumento di stipendio sulla base della verifica delle capacità dei docenti.
In Italia, l'80-90 % dell'istruzione è ancora in mano pubblica. Ma il tabù dovrebbe cadere. La scelta deve essere fatta dalle famiglie. Sono loro che debbono orientare i finanziamenti. Come? Rendendo pubblica la valutazione sui risultati dei diversi istituti. Le famiglie iscriveranno il proprio figlio in quella o quell'altra scuola. E lo Stato distribuirà i finanziamenti sulla base delle iscrizioni e dei progressi compiuti da ogni singolo istituto. «Sarà la domanda a orientare i finanziamenti».
Mancano programmi scolastici e laboratori: “4.it dal saper fare al machine learning”
Certificare le competenze per colmare le mancanze nelle “skill” richieste. Questo è il primo passo necessario se la scuola non vuole perdere l’ultimo treno col presente. Codificare le conoscenze ed identificare le competenze che devono fornire academy aziendali, istituti ed enti formativi. Ma non da soli (l’autoreferenzialità è sempre dietro l’angolo) con il coinvolgimento delle aziende più strutturate in queste dinamiche.
Il Piano Calenda ha avuto successo. Il 48% delle imprese industriali avrebbe fatto investimenti ridotti senza il Piano Industria 4.0. Il 6% non li avrebbe fatti del tutto. Ma ormai le imprese hanno capito che fare acquisti di macchinari non porta da alcuna parte senza una riorganizzazione aziendale. Bisogna cambiare la base tecnologica, riorganizzare le funzioni, passare alla vera fase esecutiva e colmare le competenze, aprendosi anche alle collaborazioni esterne.
Tutti questi ragionamenti si dovrebbero tradurre in programmi scolastici e laboratori: “4.it dal saper fare al machine learning”, dovrebbe essere il motto.
Gli studenti devono vedere, toccare e capire le realizzazioni in linea con i concetti di Industry 4.0, con applicazioni dedicate al mondo della Robotica e dell’Intelligenza Artificiale.
E gli insegnanti? Per un ciclo formativo almeno, ritrasformiamoli in allievi.
Centinaia di migliaia di famiglie continuano a credere nell’istruzione paritaria
Centinaia di migliaia di famiglie continuano a credere nell’istruzione paritaria. Sembrerebbe un cavallo di battaglia dei partiti del centro destra, almeno a parole, ma nei fatti è il centro sinistra che lo paga. Tra gli ultimi atti del Miur di Valeria Fedeli, c’è un finanziamento di 500 mln € indirizzato alla scuola privata.
Spiega il Sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi: “Le scuole paritarie non sono private tout-court. Con la Legge 62/2000 esiste un unico sistema nazionale, che è diviso in scuole statali e non statali. Le non statali sono le paritarie, scuole private che devono sottostare a un sistema di controlli e verifiche per essere equiparate alle statali. Siamo stati gli ultimi in Europa a riconoscere il ruolo nel sistema statale alle scuole non statali. Lo stato però deve garantire l’istruzione, la Costituzione parla chiaramente di libertà di scelta educativa. Fino a pochi anni fa questa scelta non aveva una gamba. La scuola pubblica statale conta 8 milioni e mezzo d’iscritti, la scuola pubblica non statale ne conta 1 milione. Se chiudesse bisognerebbe spendere diversi miliardi in più all’anno per garantire una scolarizzazione a tutti questi bambini e ragazzi. Lo Stato riconosce a queste scuole un contributo di 500 euro all’anno a studente. Alla scuola statale, invece, ogni iscritto costa 6.000 euro l’anno. Da tre anni fino a 800 € annui di retta possono essere portati in detrazione, con un taglio di 160 € annui dalle tasse. Il PON (Programma Operativo Nazionale) in attuazione della legge di stabilità per il 2017 art. 1, prevede l’accesso al PON sia per le scuole statali che, appunto, per le private. L’8 febbraio 2018 si è modificato l’Accordo di Partenariato in sede europea. Quando si affronta il tema ‘scuole paritarie’ si parla soprattutto di diplomifici e scuole confessionali. I controlli sugli istituti a ‘piramide rovesciata’, con pochi iscritti nei primi anni e tanti negli ultimi anni; ne ha portato alla chiusura di circa 60. La metà sono d’ispirazione confessionale, ma, sempre più spesso, pur partendo da radici religiose, sono oggi gestite da cooperative di insegnanti o genitori. Le cronache locali sono piene di proteste popolari contro la chiusura di queste scuole. Specie nella fascia 0-6 anni. Nel Veneto, se si dovessero chiudere gli istituti privati, probabilmente molte fabbriche non partirebbero. In generale, stanno aumentando molto anche le secondarie di primo grado, segno che c’è una richiesta crescente da parte dei genitori”. Che sono stufi delle classi multietniche dove, a causa del notevolissimo dislivello culturale dei giovanissimi frequentatori, l’offerta formativa è costantemente adeguata ad un livello sempre più basso. Ma questo il Sottosegretario non può dirlo, e lo aggiungo io.
Perché non prendere atto della realtà ed affrontare il problema, con un piano temporale straordinario almeno decennale, creando due percorsi paralleli, magari interscambiabili, con classi in cui agli utenti servono esigenze formative diverse? Oggi ostinarsi in un piano di ottusa inclusività vuol dire mettere in pratica un depauperamento culturale per tutti.
L'insensatezza e l'inutilità della attuale scuola italiana
Che piacere sentirmi spalleggiato nientemeno che dal grande Piero Angela, nella mia pluriennale battaglia contro l'insensatezza e l'inutilità della attuale scuola italiana. Questo sistema formativo genera insegnanti impreparati alla comprensione del presente, che si crogiolano nella consolante sicurezza della ripetizione del passato; ha programmi passatisti ottocenteschi delle discipline insegnate, usa metodi formativi che favoriscono la non operatività e la noia degli allievi che studiano ed imparano il minimo possibile per non essere bocciati, registra una totale assenza delle discipline che permettono la comprensione del presente e la progettazione del futuro.
In sintesi: costa troppo per quello che produce, illude inutilmente chi lo frequenta, genera potenziali frustrati e disoccupati.
Occorre cambiare, anche se mi rendo conto che ciò comporta scelte impopolari e ricadute sociali pesanti. Crea una marea di laureati disoccupati (la maggior parte delle discipline insegnate nelle università italiane è autoreferenziale ed offre possibilità di sbocco occupazionale solo nell'insegnamento). Necessita di un diverso rapporto tra realtà produttiva (che deve dettare la linea) e realtà formativa (che deve recepirla e realizzarla), facendo, dove serve ed è possibile, coincidere i due soggetti.
Cosa si può fare nell'immediato?
Lasciare all'attuale sistema formativo un residuale scopo di alfabetizzazione primaria, di protezione e di cura come scudo dall'invasività delle situazioni sociali degradate e criminali.
Abolire ogni valore legale del titolo di studio.
Creare un modello parallelo di scuola a valenza internazionale, nuova, diffusa e certificata da soggetti terzi a quelli formativi, basato su centri di costruzione e diffusione dei contenuti, sull'alto utilizzo dell'informatica, dei media, dei tutorial e dei laboratori operativi, con ampio coinvolgimento delle infrastrutture produttive.
Si supererebbe in tal modo almeno il problema della localizzazione delle nuove strutture formative (regioni con scuole di serie A e di serie B). Si tratterebbe di edifici virtuali i cui costi e tempi di realizzazione sarebbero azzerati. Per la frequentazione delle strutture produttive integrate a quelle formative, dove far svolgere una efficace alternanza scuola lavoro, si rendono necessari soggiorni residenziali di istruzione operativa.
La nostra spesa per la scuola è in linea con l'UE
Tenuto conto che la spesa previdenziale in Italia è del 17,5% a fronte di una media europea dell’area € dell’11%, la nostra spesa per la scuola del 4,6%, è di poco inferiore all’europeo 4,8%. Stessa cosa vale per l’università: 1,2% contro 1,4%. Perché, allora, si dice sempre che bisogna investire di più nell’istruzione? In un clima di deficit come quello che stiamo vivendo chi governa deve contenere la spesa pubblica, le risorse nuove da mettere in un settore devono essere levate a un altro.
L’Italia per l’istruzione non spende poco. Anzi: la spesa media per studente è superiore del 10% rispetto alla media europea. I nostri insegnanti hanno una retribuzione oraria minore rispetto alla media Ue, ma il basso livello remunerativo deriva dall’eccesso del numero di insegnanti, che mangia tutte le risorse a disposizione. Non a caso il nostro rapporto studenti/insegnanti è più basso rispetto al resto d’Europa. In questo modo tutti vengono pagati poco. La soluzione dovrebbe essere quella di ridurne il numero e pagare meglio i più meritevoli. Ma non viene fatto.
I risultati dell’apprendimento degli studenti italiani sono a loro volta il risultato della scarsa qualità dell’insegnamento, sia sul versante dei contenuti e della maturazione delle abilità sia su quello della verifica dell’apprendimento e della carenza di selezione. La preparazione dei nostri studenti è molto al di sotto della media dei 35 Paesi Ocse, quindi il livello degli insegnanti italiani è più basso della media Ocse e i nostri ragazzi risentono di una educazione famigliare valoriale che li porta a risultati “meno performanti” dei loro coetanei stranieri.
Il risultato è una mancata consequenzialità tra momento formativo ed ingresso nel mondo del lavoro. I nostri ragazzi sono disabituati al sacrificio, alla fatica ed all’impegno, in più hanno conoscenze e competenze scarse ed inutili per la realtà lavorativa d’oggi.
Occorre quindi intervenire in due sensi:
- impostare processi di sostegno per la genitorialità volti a superare modelli di lassismo educativo e iper protezione giustificativa all’interno delle famiglie i cui figli dimostrano difficoltà nell’apprendimento oncomportamenti non adeguati nei confronti dell’autorità;
- investire meglio nella formazione specifica del corpo docente e nella sua selezione, per garantire una migliore qualità del corpo docente, capace di formulare proposte per modificare sostanzialmente l’architettura formativa, i contenuti, le tecniche didattiche, l’organizzazione dei cicli ed il conseguimento dei titoli di studio, in maniera che le modifiche proposte vengano poi recepite dal governo in un proficuo scambio down-up.
Un processo di sostegno alla genitorialità in chiave scolastica deve partire da un’analisi realistica dell’attuale mondo del lavoro. In molte famiglie vige l'illusione che aver fatto studiare i figli (anche se in una scuola che insegna poco in assoluto e nulla di utile a trovare lavoro) possa servire a una promozione sociale occupazionale con un impiego dove si guadagni bene e non ci si debba “sporcare le mani”. Naturalmente sfugge loro il problema di aver tirato su una generazione di viziati mammoni smartphonedipendenti allevati ad happy hour ed a ricorsi contro insegnanti che li volevano bocciare. In questa chiave vanno viste anche le proteste studentesche contro l'alternanza scuola lavoro, considerato anziché una proficua conoscenza della realtà in cui operare nell’immediato futuro come una sorta di “sfruttamento obbligatorio di forza lavoro non pagata per arricchire i padroni”.
Il gap formativo - occupazionale viene ulteriormente rimandato con la scelta di mandarli all'estero ad imparare le lingue (che inutilmente sono state studiate in Italia per 18 lunghi anni) ed a trovare un lavoro di soddisfazione ben retribuito, anche se ciò richiede un ulteriore forte investimento economico per le famiglie. Al di là di una ristrettissima cerchia di capaci - fortunati, la grande maggioranza dei giovani espatriati, mediamente dopo un paio d'anni, tornano indietro con un bagaglio che è più di delusioni che di esperienza. Se non vogliamo rassegnarci a perdere una intera generazione (mantenendola colle pensioni di nonni sempre più longevi e colla svendita del patrimonio immobiliare famigliare faticosamente racimolato con il duro lavoro degli anni cinquanta e sessanta) occorre intervenire almeno sulla generazione dei nipoti che, non avendo più questi paracaduti (bisnonni morti, nonni con pensioni ridotte, genitori solo parzialmente occupati, nessun lascito patrimoniale immobiliare di famiglia), dovranno rassegnarsi a lavorare duro andando a contendersi il lavoro con la generazione dello ius soli, dello ius sanguinis e dello ius culturae, indubbiamente assai più adattative di loro.
Un processo di reimpostazione formativa della nostra classe docente oggi deve partire dalla semplice constatazione che essa è totalmente impreparata a gestire una scuola che dovrebbe preparare al lavoro. Anzi, in nome di una cultura formativa astratta tardo - ottocentesca elitaria, rivendica una sorta di "diritto antipadronale" ad insegnare cose utili a trovare lavoro ed evita di dare competenze che possano servire a creare "una massa amorfa di servi sciocchi" da far poi sfruttare ai capitalisti ed ai padroni.
Questa pietosa difesa dell'autoreferenzialità è il pessimo lascito delle lotte egualitarie del sessantotto. I professori oggi sono una sorta di "paraproletariato culturale antisistema" che ha però ottenuto il diritto di essere mantenuto dallo Stato almeno con stipendi minimi in cambio di un impegno minimo. Fino ad oggi ciò ha permesso lo status quo di una università dove il 90% delle facoltà porta a disoccupazione certa ed ha come speranza di occupazione soltanto l'insegnamento autoreferenziale talquale.
Se non vogliamo l’implosione prossima ventura del nostro sistema formativo occorre creare competenze nuove nella futura classe docente attraverso percorsi universitari (il cui ingresso dovrà essere a numero chiuso in base alla programmazione occupazionale futura) specifici abilitanti (quindi differenziati rispetto a quelli non volti all’insegnamento, una laurea in matematica per la didattica una per la matematica applicata) volti alla creazione di un corpo insegnante che sappia preparare al mondo del lavoro.
In tal senso gli incentivi economici dovrebbero essere riservati solo per quegli istituti o facoltà in cui venga certificato il successo occupazionale dei propri allievi.
L’inadeguatezza del corpo docente italiano a raccogliere le sfide dell’innovazione
L’inadeguatezza del corpo docente a raccogliere le sfide dell’innovazione e dei nuovi saperi è ormai evidente in tutta la sua sconcertante crudezza. Serve una normativa per la quale i professori di ruolo vengano trasformati in insegnanti a tempo determinato ed ogni 5 anni debbano sostenere un esame abilitante per titoli (pubblicazioni, seminari, conferenze, dispense didattiche, progetti didattici realizzati, gradimento degli allievi, dei genitori, dei dirigenti, dei colleghi) e prove in cui si valuti l'aggiornamento alle nuove tecnologie ed ai nuovi contenuti, secondo un piano di conoscenze ampiamente divulgato e con le tempistiche necessarie a prepararsi adeguatamente. Il concetto è quello del long life learning. Per coloro che non superano l'abilitazione, ci sarà un anno formativo obbligatorio, al termine del quale potranno ripetere la prova abilitante. Se non dovessero superarla nuovamente non sarà confermata l’idoneità all'insegnamento e dovranno essere spostati ad altra mansione, se rifiuteranno, usciranno dai ruoli occupazionali.
Togliamo l'inutile bonus cultura ai diciottenni
Togliamo l'inutile bonus cultura ai diciottenni (una captatio benevolentiae ad usum elettorale, con la quale si può acquistare il biglietto di un concertone rock da 200 € al posto) e diamo i libri gratis agli allievi delle scuole medie. Utilizzando le risorse informatiche (ebook, quindi non danneggiando le case editrici né il legittimo diritto degli autori) e facendole gestire direttamente alle scuole tramite server (che sono oggi già in possesso e connessi permanentemente col MIUR), rafforzato da un sito internet gestito in collaborazione con i docenti (già esistente poichè c'è il registro elettronico già in funzione), ed eventuali lettori multimediali (dati in comodato d'uso per gli allievi che non dispongono di uno smartphone o di un tablet), si avrebbe un risparmio del 50% circa e si favorirebbe il diritto allo studio degli allievi che hanno famiglie in difficoltà economica. Le buone prassi di riferimento sono già in atto: ricordiamoci che gran parte delle risorse didattiche di molte facoltà universitarie sono ormai disponibili gratuitamente sul sito web della facoltà.
Uno studente italiano su tre abbandona la scuola superiore senza aver completato i cinque anni
Uno studente italiano su tre abbandona la scuola superiore senza aver completato i cinque anni. In alcune regioni, come le isole, si arriva al 36 %. Negli ultimi 15 anni quasi 3 milioni di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi. Nel tempo le cose sembrano migliorare, ma il fenomeno è duro a morire. Nel 2000 i ragazzi non arrivati al diploma erano stati 216.805, il 36,8 % di quelli che erano presenti al primo anno. Nel 2014 si è scesi alle 167mila, il 27,9 %. Di questi, 69mila sono usciti dopo il primo anno, 22mila dopo il secondo, 39mila dopo il terzo e 37mila prima dell’ultimo anno.
I numeri cambiano tra i vari indirizzi scolastici. Negli istituti professionali ed artistici quattro studenti su dieci lasciano i banchi prima del quinto anno, a fronte di circa due su dieci dei licei.
È un problema che porta con sé costi sociali, politici ed economici molto alti. I ragazzi che lasciano la scuola sono più soggetti alla disoccupazione, hanno bisogno di più sussidi sociali e sono ad alto rischio di esclusione sociale, con conseguenze sul benessere e la salute. Inoltre, tendono a partecipare meno ai processi democratici. Il quadro è drammatico anche dal punto di vista economico sia come spesa sia come mancato ricavo. Si sprecano 503 mln €/anno per ogni ciclo della scuola superiore. Se questi giovani entrassero nel sistema produttivo, il PIL italiano salirebbe di 2 punti, 32,5 mld €/anno.
Quasi mai ciò che si è studiato a scuola sarà spendibile
Ormai nessuno crede più alle favole che sia la scuola a fornire una cultura spendibile per leggere e comprendere la realtà in cui si vive, non parliamo poi di apprendere qualcosa di spendibile nel mondo del lavoro per trovare un’occupazione. A scuola si studia (spesso a memoria senza preoccuparsi troppo di cosa sarà interiorizzato e per quanto tempo sarà ricordato) ciò che serve per strappare una sufficienza ad una verifica ampiamente programmata, altrimenti sono guai. Quasi mai ciò che si è studiato sarà spendibile.
Forti di un sicuro insuccesso nei test del Programme for International Student Assessment, meglio noto con l'acronimo PISA, l’indagine internazionale promossa dall'OCSE nata con lo scopo di valutare con periodicità triennale il livello di istruzione degli adolescenti dei principali paesi del globo, brilliamo anche nell’Index of Ignorance, il test triennale dell’Ipsos Mori, che misura il paese “più ignorante” del mondo sulla conoscenza di se stesso. Ad un campione di circa undicimila intervistati di ogni nazionalità vengono sottoposte una serie di domande che prescindono dalla loro formazione scolastica. Per esempio: qual è la percentuale di occupati del tuo paese? Quanti sono gli over 65? Quanti sono gli immigrati? Qual è la percentuale di ragazze tra i 17 e i 19 anni che partoriscono ogni anno?
Chi era la nazione più ignorante sulla realtà del proprio paese? Risposta: l’Italia. Gli italiani credevano che nel loro paese i disoccupati fossero il 49%. Erano il 12%. Che gli over 65 fossero il 48%. Erano il 21%. Che gli immigrati fossero il 30%. Erano il 7%. Che le ragazze madri fossero il 17%. Erano lo 0,5%.
Continuiamo pure a dirci che la formazione fornita ai nostri ragazzi è delle migliori al mondo, che la libertà e l’offerta di informazione fornita dai nostri media è tra le più alte del pianeta, che il genio italico è nel nostro DNA e brilla ovunque nel mondo, che il popolo italiano si conosce bene e si apprezza.
Non è così.
Il Global Teacher Status Index misura il gradimento degli insegnanti
I risultati dei test Pisa (Program for International Student Assessment) sui nostri 15enni, sono ben sotto la media Ocse: le riforme del passato non sono servite a migliorare la qualità dell’insegnamento e le capacità dei nostri studenti.
Le lacune si annidano soprattutto alle superiori, quando la distanza tra gli studenti italiani e quelli stranieri si allunga. Le riforme, insomma, non hanno mai finito per migliorare la qualità degli studenti, che restano basse.
Oltre agli scarsi risultati dell’apprendimento dei nostri studenti, si segnala anche una situazione critica degli edifici scolastici. Il 14% ha lesioni strutturali, il 20% delle aule ha distacchi di intonaco, nel 25% di aule e palestre ci sono muffe, infiltrazioni e umidità, come 31% dei bagni. Il 39% delle scuole mostra uno stato di manutenzione del tutto inadeguato; nell’84% dei casi sono stati richiesti interventi mantenutivi, ma nel 21% si è intervenuti con estremo ritardo e nel 14% dei casi l’intervento non è mai arrivato.
Tutte le riforme scolastiche hanno fallito. Luigi Berlinguer, mirava a eliminare la distinzione tra formazione culturale e professionale prevedendo due soli cicli di istruzione. La Moratti abolì l’esame di licenza elementare, ridusse il “tempo scuola”, introdusse nuovi programmi di storia, geografia e scienza, l’innalzò l’obbligo scolastico a 18 anni, ripropose la dualità tra licei e formazione professionale, e puntò (almeno a parole) su inglese, informatica e impresa. Fioroni stabilì che il debito formativo doveva essere recuperato entro l’inizio del nuovo anno scolastico; Gelmini ridusse il numero di insegnanti, stabilì che un’ora di scuola dura 60 minuti, impose il maestro unico e introdusse un premio di produttività, e Renzi assunse 100mila docenti per “superare” il problema delle supplenze e del precariato.
Ma i risultati del test Pisa non migliorarono. Evidentemente non erano solo queste le soluzioni che servivano.
Dai test Pisa l’Italia si colloca tra la 30esima e la 35esima posizione nell’elenco dei 65 Paesi ed economie che hanno partecipato alla valutazione. Il punteggio medio delle competenze matematiche nell’indagine Pisa si ferma a 485, mentre la media dei Paesi Ocse è di 500. Per non parlare dell’inglese: l’Italia si classifica 32° su 60 Paesi, con Uruguay, Sri Lanka, Russia, Taiwan, China, Emirati Arabi Uniti, Costa Rica, Brasile, Peru, Messico, Turchia, Egitto e Iran.
E la valutazione degli insegnanti? Qui sta il punto chiave. Non sarà che i nostri studenti non sono così bravi perché i loro insegnanti non sono capaci di insegnare? Al contrario di Paesi come Inghilterra, Francia o Finlandia, non esiste una valutazione esterna degli insegnanti della scuola pubblica, anzi in Italia il 70% lavora in scuole in cui non esiste nemmeno una forma di autovalutazione del proprio lavoro. Tra gli insegnanti più autocritici (solo il 35%) si manifesta un bisogno di formazione professionale soprattutto nelle capacità tecnologiche e informatiche. I nostri professori sono mediamente i più vecchi d’Europa (oltre 50 anni) ma con solo 20 anni di lavoro alle spalle. Poiché la considerazione sociale dei docenti non è positiva 78,5% degli Italiani, a fronte del 40,9% della media Ocse, gli insegnanti italiani più autocritici ritengono che un processo costante della loro valutazione migliorerebbe la percezione pubblica del proprio ruolo, ed inoltre, il timore di conseguenze negative sull’andamento della propria carriera, porterebbe a un impegno maggiore per migliorare le performance degli studenti.
Ma il dato che fa più male è la scarsa considerazione con cui sono considerati gli insegnanti italiani da parte dei loro studenti (Global Teacher Status Index). Solo il 3% degli studenti nutrono rispetto verso chi sta dietro la cattedra, risultando i più irrispettosi d’Europa. Il 75% di loro sostiene che i prof dovrebbero essere pagati in base ai risultati dei loro studenti e quindi, parlando per l’Italia, dovrebbero essere pagati sempre meno.
La “Buona Scuola” ma per favore ci scappa da ridere
La discussione sulla “Buona Scuola”, sembra assolutamente non tenere conto dei risultati pessimi della nostra scuola in tema di acquisizione e mantenimento delle competenze necessarie per il lavoro. Il sistema formale d’istruzione è assolutamente incapace di preparare i nostri studenti al mondo del lavoro, che non aspetta né sindacati né governi, per mutare e richiede competenze nuove ai lavoratori. La velocità di cambiamento nel contenuto di skill è una delle caratteristiche più marcate delle nuove occupazioni, soprattutto legate all’economia digitale.
Una scuola pachidermica ed autoreferenziale non capisce minimamente che nel mondo nulla o quasi si produce e si organizza come eravamo abituati anche solo prima della seconda metà degli anni 2000. Anche il sistema imprenditoriale e le politiche pubbliche in tema di formazione non facilitano l’acquisizione di nuove competenze. Qual è l’incidenza della formazione professionale in Italia rispetto ai Paesi europei? In grave ritardo, in tutte le classi di età, sulla media europea e soprattutto sui Paesi del Nord Europa, i più dinamici in quanto a formazione del personale.
Esiste una correlazione fra livelli del Pil pro-capite e incidenza media della formazione professionale: il livello di produttività è assolutamente associato alle competenze della forza lavoro. L’uso medio di alcune competenze generiche sul posto di lavoro, misurate dal Programma Internazionale di valutazione delle competenze degli adulti (PIAAC), in Italia è basso.
Un punto percentuale di maggiore incidenza della formazione professionale sarebbe associato a un 1,9% in più di produttività del lavoro, e conseguente aumento del PIL pro-capite reale. Ma l’utilizzo dei fondi regionali e statali pubblici per la formazione professionale è il disastro che tutti conoscono, con una gestione clientelare che vede il sindacato pienamente corresponsabile.
Si segnalano docenti superbi e poco inclini all'autocritica e discenti ignoranti e disoccupati
Occorre far capire allo studente impegnato nell'alternanza scuola-lavoro la fondamentale funzione culturale che ha il lavoro.
La scuola italiana nasce quando il neonato Regno d’Italia decide che il paese deve avere una profonda rivoluzione culturale, e un popolo, in prevalenza analfabeta, deve arrivare almeno a saper leggere e scrivere. Nel 1923, il capo del governo Benito Mussolini, ed il Ministro dell'Educazione Nazionale Giovanni Gentile, mettono in piedi la riforma dei licei (classico e scientifico), che sostanzialmente è rimasta invariata da allora. Nel 1962, il governo delle “convergenze parallele”, un monocolore Dc con l’appoggio di Psdi e Psi, con presidente del consiglio Amintore Fanfani e ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui, mettono in atto la riforma della scuola media per portare tutti gli studenti a competenze di scrittura e lettura più approfondite, più adatte al boom economico degli anni Sessanta. I decreti Malfatti nascono sull’onda lunga delle contestazioni del ‘68, ed aprono alla democrazia rappresentativa (rappresentanti dei docenti, degli studenti, dei genitori) e alla sperimentazione (ad esempio il “progetto Brocca”, che univa alle materie dello scientifico, diritto ed economia). Negli anni Ottanta l’allora ministro Luigi Berlinguer studiò il modo di accorpare elementari e medie in un unico corso di sette anni (anzichè otto) poiché sembrava che uno degli handicap dei giovani italiani fosse il fatto di andare a scuola un anno in più dei coetanei europei. Non se ne fece nulla. Con la Moratti si puntò sulle “tre i”: inglese, informatica e impresa, per formare giovani pronti per il mercato del lavoro e una carriera di successo. Ma anche le "tre i" rimasero sostanzialmente lettera morta. Con Maria Stella Gelmini, iniziò la grande stagione dei tagli: delle sperimentazioni e del pool di maestri che consentivano un agevole tempo pieno alle elementari.
E oggi?
La riforma annunciata da Renzi fatica nel suo cammino.
Gli insegnanti precari che lavorano nella scuola a vario titolo da decenni speravano nell’assunzione promessa, ma sostengono che si è visto ancora troppo poco.
Chi sperava di vedere cambiamenti concreti nella preparazione degli studenti, che tanto lascia a desiderare, non ha visto nulla.
Nei test Pisa siamo al trentaduesimo posto su 64 paesi partecipanti, l’abbandono scolastico secondo l’Istat è del 17% (cinque punti più della media europea) e, per il consorzio Almalaurea, più della metà degli universitari non ce la fanno a tenere il passo con gli studi, portando il tasso di abbandono al 55%, il più elevato tra i paesi dell’Ocse.
Una riforma ha come punto di partenza predisporre dettagliatamente il “cosa” insegnare e il “come” farlo. Tutto il resto ruota attorno a questo.
Invece si parla principalmente di assunzioni, dell’edilizia scolastica, del precariato e delle ristrutturazioni. Poi, ma molto poi, si parla di un elenco di tematiche da potenziare, da reintegrare, da introdurre: inglese, matematica, musica, arte, diritto, economia, creazione di video e programmi, rispetto della legalità, ambiente, paesaggio e monumenti.
L’esercito delle cose non essenziali, inutili o addirittura dannose, prosegue: educazione alimentare, stradale, sentimentale, sessuale, alla solidarietà...
Ma dove trovare il tempo per tutto ciò senza toglierlo ad insegnare a leggere, scrivere e far di conto?
Prendiamo l’inglese, occorre garantire «particolare attenzione, fin dalla primaria, alla assoluta professionalità di chi insegna l’inglese, per dare insegnamenti non appiccicaticci - per cui si fa fare un corsettino alla maestra dalla quale si richiede un inglese assolutamente perfetto».
C'è chi si spinge oltre. Fare lezione di diverse discipline direttamente in lingua inglese.
Ma chi insegna a chi, a fare lezione in un inglese perfetto?
Sull’organizzazione non stiamo meglio.
Il rilancio dell’autonomia. Non c’è la possibilità di decidere né la gestione del personale né l’organizzazione scolastica. In teoria le scuole possono scegliere di modificare il 20% del curriculum, per es. 3 ore meno di arte e 3 ore di più di scienze. Ma questo non avviene perché il collegio dei docenti difficilmente approva modifiche che vanno a ledere lo status di alcuni di loro.
Ma in quale direzione andare?
Noi siamo cresciuti studiando al liceo sugli stessi libri di testo usati dai nostri genitori. Oggi invece un bambino, il primo giorno di scuola, inizia un viaggio che non sappiamo assolutamente prevedere dove lo porterà. In diciotto anni di studi la struttura del sapere è cambiata almeno due volte.
Auto-aggiornamento continuo? Certo, perchè, da chi si occupa di istruzione, ci si deve aspettare almeno
questo. Ma se poi i programmi non cambiano?
Ma da dove attingere? A chi ispirarsi?
Sovente vengono citati tre testi:
- “Una testa ben fatta” di Edgard Morin (propone meno materie e più scienze integrate, con un docente “leader” capace di insegnare in modo interdisciplinare),
- “Formae mentis” di Howard Gardner (sostiene come la nostra scuola sia disegnata per premiare l’intelligenza logico-matematica, mentre esistono intelligenze multiple - spaziale, interpersonale, cinestetica etc. - che presuppongono una didattica personalizzata),
- “Modernizzare senza escludere” di Bertrand Schvartz, («un ingegnere di Lille secondo cui il lavoro rimotiva allo studio, quindi alternare ore di studio e ore di lavoro significa far capire allo studente che il lavoro ha una funzione culturale e che la buona scuola favorisce l’occupabilità).
E allora? Non se ne fa nulla.
Anche per oggi si segnalano docenti superbi e poco inclini all'autocritica, e discenti ignoranti e disoccupati.
La valutazione degli insegnanti è vista come una “sovrastruttura aziendalista” di ostacolo alla libertà di insegnamento
La destra classica, dalla riforma Gentile in avanti, ha sempre apprezzato una separazione netta nella scuola tra le discipline teoriche e quelle pratiche.
La sinistra storica, per cui il lavoro è sfruttamento, ha sempre indicato la scuola come un mezzo per superarlo.
La borghesia emergente della seconda parte del ‘900, ha sempre sostenuto che l’istruzione è un modo per tenere lontani i figli dalla fatica del lavoro manuale.
Per tutti, la scuola e il lavoro, sono mondi separati cronologicamente e culturalmente. E tali devono restare.
Poi come un fulmine a ciel sereno è arrivata l’alternanza scuola - lavoro, pasticciata quanto si vuole, ma obbligatoria, estesa scandalosamente anche ai licei e finanziata massicciamente.
Lo scandalo sta nell’assunto di base: stare nei luoghi del lavoro oltre che in classe è importante per la crescita dei nostri ragazzi, specie per quelli che andranno all’università.
Il finimondo.
E oggi ci troviamo un milione e mezzo di ragazzi dentro percorsi di alternanza, alcuni eccellenti, altri da migliorare, altri ancora da riscrivere da capo.
L’alternanza scuola lavoro è diventato un pezzo dell’offerta formativa della scuola italiana, e in un contesto di disoccupazione giovanile ancora altissima e di disallineamento tra educazione e mondo del lavoro si tratta di un risultato da difendere, anche perchè interamente costruito intorno al futuro degli studenti e non al presente degli insegnanti.
In una scuola insegnantocentrica, in cui la valutazione degli insegnanti è vista come una “sovrastruttura aziendalista” di ostacolo alla libertà di insegnamento, l’alternanza parla delle competenze del futuro, del dialogo tra scuola e territorio, di sapere e saper fare, di produzione di cultura e di cultura della produzione. Pone al centro la costruzione di futuro, e non il mantenimento di posizioni passate. Esplora spazi nuovi, non rimpiange quelli passati. Pone una istituzione ad alto rischio di autoreferenzialità come la scuola fuori dal suo spazio di confort, e le impone di essere attiva, aperta e capace di progettare come reinventarsi per vivere e non solo sopravvivere.
Si fa prima a costruire il futuro che a immaginarlo
Tempi meravigliosi quelli che viviamo: si fa prima a costruire il futuro che a immaginarlo, tanta è la velocità del cambiamento negli ultimi anni. Viviamo in un’epoca in cui fra quando un bambino entra alle elementari e quando ne esce nascono e si affermano tecniche, linguaggi, strumenti, modelli mentali e comportamentali impensabili un attimo prima.
Passato, presente e futuro si stanno sovrapponendo e ogni tempo scivola molto più facilmente nell’altro. Lo studio del passato (su cui tutta la nostra obsoleta pratica formativa si basa) non fornisce più alcun insegnamento valido per l’oggi, figurarsi per il domani. Resta lì a disposizione, ben classificato nel web, accessibile in pochi istanti in quantità e qualità una volta impensabili.
Il passato, che ancora pochi decenni fa funzionava come punto di riferimento imprescindibile, oggi non è più in grado di offrire soluzioni a scenari e questioni come quelle che stiamo vivendo, assolutamente senza precedenti in tutta quanta la storia umana.
Il futuro è messo al mondo in diretta da chi ricerca, progetta, inventa, sperimenta. È proprio in questa combinazione fra presente e futuro, che smettiamo di subire passivamente la realtà e ci sentiamo di essere parte della sua continua evoluzione.
Sette saperi necessari all’educazione del futuro
Deciso si cambia. Niente più materie ma argomenti multidisciplinari, niente più cattedre ma gruppi di lavoro in cui professori e studenti siedono insieme intorno a un tavolo. In Italia? No, in Finlandia, paese che ha già risultati eccellenti nei test di comparazione tra gli studenti di tutto il mondo (Pisa) ma sente il bisogno di «un’educazione nuova per preparare le persone al lavoro».
Si cambia. Bisogna insegnare quello che è davvero essenziale, non storia o matematica ma le tematiche che Edgar Morin ha elencato nei “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”.
Sette argomenti che devono, a suo parere, diventare fondamentali nell’insegnamento e che l’educazione dovrebbe trattare in ogni società e in ogni cultura. Questi temi permetteranno di integrare le discipline esistenti e di stimolare gli sviluppi di una conoscenza atta a raccogliere le sfide della nostra vita individuale, culturale e sociale”
1- Le cecità della conoscenza.
L’errore e l’illusione: “E’ sorprendente che l’educazione, che mira a comunicare conoscenze, sia cieca su ciò che è la conoscenza umana, (…), le sue propensioni all’errore e all’illusione, e che non si preoccupi affatto di far conoscere che cosa è conoscere”
2- I principi di una conoscenza pertinente.
È necessario “promuovere una conoscenza capace di cogliere i problemi globali e fondamentali”. La critica è verso la supremazia di una conoscenza frammentata nelle diverse discipline “spesso incapaci di effettuare il legame tra le parti e la totalità”. “E’ necessario sviluppare l’attitudine naturale della mente umana a situare tutte le informazioni in un contesto e in un insieme”. “E’ necessario insegnare i metodi che permettano di cogliere le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in un mondo complesso”.
3- Insegnare la condizione umana.
“L’essere umano è nel contempo fisico, biologico, psichico, culturale, sociale, storico. Questa unità complessa della natura umana è completamente disintegrata nell’insegnamento, attraverso le discipline”. “Ciascuno dovrebbe prendere conoscenza e coscienza sia del carattere complesso della propria identità sia dell’identità che ha in comune con tutti gli altri umani”.
4- Insegnare l’identità terrestre.
“Occorre insegnare la storia dell’era planetaria, che inizia nel XVI secolo (…) e mostrare come tutte le parti del mondo siano divenute inter-solidali, senza tuttavia occultare le oppressioni e le dominazioni che hanno devastato e ancora devastano l’umanità”.
5- Affrontare le incertezze.
Le scienze, nel corso del XX secolo, “ci hanno rivelato innumerevoli campi d’incertezza”. “L’insegnamento dovrebbe comprendere un insegnamento delle incertezze che sono apparse nelle scienze fisiche (…), nelle scienze dell’evoluzione biologica e nelle scienze storiche”. Secondo Morin, si dovrebbero insegnare “principi di strategia che permettano di affrontare i rischi, l’inatteso e l’incerto e di modificarne l’evoluzione grazie alle informazioni acquisite nel corso dell’azione. Bisogna apprendere a navigare in un oceano d’ incertezze attraverso arcipelaghi di certezza”.
6- Insegnare la comprensione, che “è nel contempo il mezzo e il fine della comunicazione umana”.
L’educazione alla comprensione è assente dai nostri insegnamenti, mentre “il pianeta ha bisogno in tutti i sensi di reciproche comprensioni”. Pertanto, “data l’importanza dell’educazione alla comprensione, a tutti i livelli educativi e a tutte le età, lo sviluppo della comprensione richiede una riforma delle mentalità. Questo deve essere il compito per l’educazione del futuro”. La reciproca comprensione fra gli uomini, vicini a noi o lontani, “è ormai vitale affinché le relazioni umane escano dal loro stato barbaro di incomprensione”. E’ necessario, quindi, studiare l’incomprensione “nelle sue radici, nelle sue modalità e nei suoi effetti”. Tale studio sarebbe tanto più importante “in quanto verterebbe non sui sintomi, ma sulle radici dei razzismi, delle xenofobie, delle forme di disprezzo”. E tale studio “costituirebbe nello stesso tempo una delle basi più sicure dell’educazione alla pace”.
7- L’etica del genere umano.
“L’insegnamento deve produrre una antropo - etica capace di riconoscere il carattere ternario della condizione umana “che consiste nell’essere contemporaneamente: individuo, specie e società. (…) ”... ogni sviluppo veramente umano deve comportare il potenziamento congiunto delle autonomie individuali, delle partecipazioni comunitarie e della coscienza di appartenere alla specie umana”. Morin individua due grandi finalità etico - politiche del nuovo millennio: “stabilire una relazione di reciproco controllo fra la società e gli individui attraverso la democrazia; portare a compimento l’Umanità come comunità planetaria”. “Perseguire l’ominizzazione nell’umanizzazione in virtù dell’accesso alla cittadinanza terrestre in una comunità planetaria”.
L'università travolta dal processo di massificazione
La causa della crisi della nostra università travolta dal processo di massificazione, poggia su un tavolino con tre gambe:
1. un clima culturale sfavorevole alimentato dal semplicismo dell’analisi della narrazione mediatica;
2. l’astrusità inattuabile delle ricette proposte dalla politica e dalle imprese;
3. le oligarchie accademiche.
Indichiamo alcune vie d’uscita dalla crisi:
1. il superamento dell’autoreferenzialità degli atenei e degli accademici, la cui esistenza va giustificata e garantita non in sé ma in quanto strumento di inserimento dei laureati nel mondo dell’occupazione,
2. una sostanziale politica di sostegno al diritto allo studio volta a contrastare l’abbandono o la rinuncia dei giovani alla formazione universitaria vista superata ed inutile come strumento di conoscenza, di promozione sociale e di potenzialità occupazionale,
3. un cambiamento sostanziale dei processi di reclutamento del corpo docente, per cui la ricerca applicata dovrebbe assumere maggiore importanza nelle valutazioni dei concorsi, così da supportare l'opinione degli studenti e delle imprese nei fattori di valorizzazione del ruolo delle università,
4. l’emergere di segmenti competitivi attraverso la concentrazione delle scuole di dottorato solo negli atenei che riescono a specializzarsi e ad ottenere risultati prestigiosi nelle aree tematiche potenzialmente attivabili,
5. una onesta politica di reputazione, grazie al superamento della pubblicità centrata solo sul numero delle immatricolazioni, ma fatta attraverso il racconto del vantaggio sociale che la produzione e la certificazione di conoscenza procura, in maniera tale che riesca ad influenzare virtuosamente il sistema mediatico,
6. il superamento delle misure di public engagement, ancora concepite come atti di puro clientelismo o dovuto solidarismo, e la loro evoluzione in strumenti per attivare concreti patti territoriali per lo sviluppo.
La condizione occupazionale dei laureati
Gli anni della contestazione giovanile hanno avuto come lascito positivo lo sviluppo dell’università di massa. L’Università degli Studi di Milano passò ad esempio dai 7.461 iscritti del 1958-1959 ai 63.642 iscritti nel 1978-79.
Ma qual è oggi il profilo e la condizione occupazionale dei laureati? Tra il 2006 e il 2014 il tasso di occupazione dei giovani provenienti da famiglie meno favorite si è ridotto del 10 %, a fronte di una riduzione del 3% per i giovani provenienti dalle famiglie più favorite.
Le retribuzioni dei laureati provenienti da famiglie con laureati sono scese del 13%, quelle di chi ha famiglie con licenza elementare del 20%.
Di conseguenza l’appetibilità degli studi universitari, soprattutto per i giovani provenienti da questi contesti, ne ha risentito e rischia di affievolire ulteriormente il ruolo dell’istruzione avanzata come ascensore sociale. Quella che viene sempre definita morte dell’università è sempre di più un dato strutturale: le iscrizioni all’università sono in decrescita, di anno in anno. Nel 2013 fece scalpore il dato dei 58.000 immatricolati in meno rispetto al decennio precedente. Infatti, fra il 2015 e il 2014 si sono registrate quasi 70.000 iscrizioni in meno (45.000 solo al Sud); e nel 2014 si registrava un calo rispetto al 2013 di oltre 32.000 iscritti.
Le immatricolazioni per l’anno accademico 2014/15 sono precipitate del 20% rispetto a quelle dell’anno 2004/5. Un calo che è più forte al Sud
Significa non solo che nelle università ci sono molti fuoricorso, ma che numerosi studenti abbandonano gli studi, non ritenendo indispensabile concludere quel percorso per accedere al lavoro. Calano anche le iscrizioni ai test d’ingresso per le facoltà a numero chiuso (medicina, architettura, veterinaria): meno di 80.000 nel 2015 contro i 90.000 del 2014 e i 115.000 del 2013. Chi è il responsabile di questa situazione?
La riforma Gelmini, uno spartiacque del rapporto tra diplomati e università: la fuga dalle aule universitarie ha in pratica colpito esclusivamente i ragazzi degli istituti tecnici e professionali, prevalentemente figli di famiglie di classi sociali ed economiche più esposte alla crisi, questo per l’impennata delle tasse ed il taglio ai fondi nazionali e regionali per il diritto allo studio con la legge di Stabilità (87,4 mln € per il Fondo di finanziamento ordinario, con tagli, dal 2009, di oltre 800 mln €). Oggi l'Ffo (fondo finanziamento ordinario) girato dallo Stato alle università italiane rappresenta lo 0,42% del Pil contro lo 0,99% in Francia e lo 0,92% in Germania.
Gli immatricolati che hanno conseguito il diploma in un istituto tecnico o professionale crollano del 45% rispetto a dieci anni fa. Il calo del laureati, 258.052 nel 2014, 37.616 in meno, cioè il 12,72%, il peggior dato dal 2003-04
Il mutamento del ruolo dell’università e delle prospettive di lavoro offerte da una laurea, è un’altra causa di crisi. La discrepanza fra laureati e i posti di lavoro qualificato disponibili, rende l’università un enorme bacino di raccolta dei giovani della classe media, che aspirano ad una scalata sociale e possono permettersi di sostenere i costi degli studi universitari.
La crisi economica inoltre ha creato una forbice geografico - sociale fra Nord e Sud. Quando il mercato del lavoro diventa più selettivo diminuisce il valore del titolo e aumenta quello delle effettive competenze; gli studenti più motivati cercano di distinguersi, conseguendo titoli più spendibili sul mercato in zone dove le università sono più “competitive”.
Uno dei fattori di abbandono dell’università sono le rette salate, aumentate in maniera esponenziale, e non sempre le famiglie possono permettersi di mantenere uno o più figli per 5 o più anni. Rispetto agli anni precedenti la crisi e anche per effetto dell’aumento dei costi dell’università, la spesa per istruzione, fra tasse universitarie, libri e costi di mantenimento, è salita dal 7,5 % al 9,4%. In 10 anni siamo passati da una tassazione media di 736,91 € ad una di 1.112,35 €, dato da solo utile a smontare una volta per tutte gli assunti di chi sostiene che l’università italiana si quasi gratuita. Nel 2012 Monti ha sostanzialmente liberalizzato le tasse studentesche, indebolendo l’unico vincolo normativo che impediva agli atenei di aumentarle liberamente.
Il debito degli studenti vale 1400 bilioni di dollari
Oggi, milioni di studenti in tutto il mondo prendono a prestito denaro per finanziare gli studi universitari. Prima del 2008, la facilità di accesso al credito ha alimentato la crescita dei mutui immobiliari, concessi ai soggetti più a rischio (subprime).
Allo stesso modo, oggi la eccessiva facilità di concedere prestiti a chi va alla ricerca di una laurea ha portato ad un'esplosione del debito degli studenti, che vale 1,4 trilioni di dollari. Nel 2008 lo stock di mutui immobiliari valeva 14,8 trilioni di dollari.
Anche in questo caso il denaro facile ha creato una spirale di crescita nei prezzi degli asset sottostanti: il costo di una casa e il costo dei college universitari.
Oggi la proporzione di studenti in ritardo di pagamento o in default ha toccato un livello altissimo. Se nel 2008, il 61% dei mutui immobiliari (circa 9,5 trilioni di dollari) era stato cartolarizzato in strumenti finanziari e venduto agli investitori, oggi soltanto una piccola frazione (13%) dei prestiti studenteschi è cartolarizzata, e il valore finanziario sottostante rimane relativamente piccolo (180 miliardi di dollari).
L’aumento del debito degli studenti indebolisce la formazione di famiglie tra i minori di 35 anni e la proporzione di adulti in possesso di una casa di proprietà. Il futuro che si sperava roseo, in realtà è grigio scuro.
L’università non ha connessione con il mondo del lavoro
L’università non funziona, non ha connessione con il mondo del lavoro, non si sa adeguare al cambiamento e da quindici anni è dentro una riforma, quella del 3+2, che è il peggior sistema che si possa avere.
Expo, Export e Expat sono le tre cose che funzionano e che ci aprono al mondo, però, aggiunge esistono molte cose che non funzionano, in primis il sistema formativo, visto che siamo diventato il principale produttore al mondo di Neet, giovani che né studiano, né lavorano.
La colpa è del sistema formativo? Sì. Si parla solo di organizzazione, precariato, potere dei presidi, mai di come cambiare la scuola dal punto di vista dei contenuti. Quando ci sono storie di successo di aziende, non c’è mai una connessione con l’università di provenienza, è solo frutto della capacità degli italiani di fare e innovare in modo autonomo. La colpa è di un sistema che non è in grado di raccontare l’evoluzione del mondo del lavoro. Siamo ancora dentro il peggiore sistema universitario che si potesse avere. Il 3+2 è uno scempio. Nel biennio si replica a grandi linee il triennio e si tengono i ragazzi nelle stesse università, quando la cosa migliore sarebbe fare il triennio in Italia e poi il master di un anno all’estero. È un sistema che non si sa adeguare al cambiamento anche perché gli atenei non hanno applicato adeguatamente la riforma: nelle università pubbliche non sono mai stati creati dei centri di placement efficienti. Nel passaggio dal sistema a 4/5 anni precedente al 3+2 abbiamo svuotato di profondità culturale le università e non le abbiamo connesse con il lavoro. Il sistema 3+2 è stata una dichiarazione universale del diritto di laurea, che è il vulnus culturale di questo Paese. Il messaggio è che tutti devono laurearsi, quandoc’erano tanti altri lavori da fare. Mentre ci sono istituti come gli Its (istituti tecnici superiori), che vanno a formare operai altamente specializzati, funzionano benissimo ma non sono conosciuti né trattati dalla stampa. La politica deve lavorare per sottrazione, per togliere gli ostacoli. Ci sarebbe dovuto essere il decreto del Lasciar Fare. Alcuni Paesi che sembrano più indietro di noi, come l’Albania, la Lettonia e l’Estonia, corrono, innovano, proprio perché lasciano fare. Ci sono tantissimi lavori che tra cinque anni non esisteranno più, anche nel mondo digitale. Bisogna continuare a esaminare il mercato e capire cosa l’innovazione tecnologica va a distruggere e creare di nuovo. La prospettiva è quella di inserire continuamente la formazione nella vita lavorativa, o in modo orizzontale o con pause ogni 3-4 anni. Noi in Italia questo lo facciamo pochissimo.
L’Italia gioca troppo la partita sulla narrazione dell’eccellenza. Si vince con una buona media. Oggi la selezione avviene sulla base del curriculum. E le aziende vogliono più sicurezze: un cv estremamente solido e una perfetta conoscenza delle lingue. Oggi gli uffici delle risorse umane di moltissime aziende preferiscono una buona media sulle eccellenze. Raccontare ai ragazzi che si vince perché si è eccellente è sbagliato, perché non è vero.
Nelle università italiane si pubblica molto ma si inventa poco
Nelle università italiane si pubblica molto, ma si inventa poco: il 6% di pubblicazioni scientifiche nel mondo sono italiane, ma se passiamo ai brevetti non superiamo il 3 %. In altre parole, le università italiane e il mondo imprenditoriale vivono su due pianeti diversi. È possibile, anche con poche risorse, far nascere una relazione positiva tra università e imprese. Bisogna dare alle università uno stimolo per produrre innovazione. La chiave è offrire agli atenei i diritti di proprietà delle invenzioni, che fino ad oggi appartengono al Governo. In questo modo le università possono commercializzarli, facendone una fonte di reddito.
Gli accademici, non sono però imprenditori, e vogliono soprattutto pubblicare. Probabilmente se si focalizzassero sul business e sul trasferimento delle loro invenzioni alle imprese, pubblicherebbero di più.
L’ambiente italiano è un ambiente che scoraggia, sfiduciato, pigro, nel quale sono costrette a muoversi persone con tante idee e ma poca fiducia in quel che fanno. Le università diventano allora torri d’avorio che perdono il contatto coll’ambiente in cui la selezione naturale crea nuove specie di sapere e di conoscenza. Spesso i ricercatori non si fidano l’uno dell’altro, perché ognuno vuole insegnare all’altro. Come dice Darwin, siamo specie che si adattano all’ambiente in cui si trovano. Se l’ambiente offre rendite e sussidi, si svilupperà meglio chi si sa adattare a un mondo fatto di rendite e sussidi. Se non ci sono sussidi, il fund raising è focalizzato sul business.
L’Italia è il solo paese ad avere sperimentato una decrescita nel tasso di occupazione dei laureati
Il tasso di occupazione dei giovani laureati italiani è del 25 % più basso degli omologhi in Francia e Germania. L’Italia è il solo paese ad avere sperimentato una decrescita nel tasso di occupazione dei laureati. Nonostante la grave crisi, il tasso di occupazione spagnolo è ben del 12 % più alto di quello italiano.
Che cosa sta facendo il Governo per migliorare la qualità dell’istruzione e le nostre Università? Ci sentiamo di poter dire poco o nulla. Le nostre università devono cambiare. Vi è sempre una sollevazione popolare nel momento in cui qualcuno ricorda che una scuola non è poi tanto diversa da ogni altra azienda o impresa. Ma anche ammettendo che la funzione scolastica non si esaurisca nella ricerca di un profitto, possibile che non si colga che i cattivi risultati di un’organizzazione sono sempre da ricercare in cattive pratiche gestionali e organizzative?
Il male è già all’origine. Il tasso di conseguimento di una laurea in Italia è piuttosto basso, nel contesto internazionale, anche perché, con un tasso inferiore al 10%, i giovani italiani sono fra i meno remunerati per la loro scelta di conseguire un titolo di studio che è qualificante in tutto il mondo sviluppato.
Tassi di occupazione più alti per i diplomati che per i laureati sono un’evidenza costante solamente nei paesi in via sviluppo, nei quali la struttura produttiva non riesce a “digerire” un numero di laureati anche sostanzialmente basso, come nel caso italiano. Per di più, non sembra che il titolo di studio superiore in sé sia quell’ascensore sociale che ci si aspetterebbe.
L’effetto addizionale di avere una laurea, rispetto al solo titolo superiore, è abbastanza basso se paragonato agli altri paesi, mentre l’effetto stigma della situazione socio-economica della famiglia di origine, misurata dal titolo di studio dei genitori, è tra i più alti fra i paesi Ocse, nel caso uno dei genitori abbia solo un titolo di studio inferiore al diploma superiore. Per di più, l’Italia è il paese dove essere “relativamente più anziani” gioca un ruolo determinante nei risultati in termini di salario. Un 55-64enne in Italia, infatti, ha le maggiori probabilità, fra i paesi Ocse, di essere nella parte alta della distribuzione del reddito. La nostra gioventù è completamente dipendente dalle famiglie: lavori instabili, poche competenze acquisite, dinamiche salariali, carriere modeste e una pensione che resta una chimera.
La nostra scuola è centrata su di una impostazione storico umanistica propria di una cultura ottocentesca
La nostra scuola è centrata su di una impostazione storico umanistica propria di una cultura ottocentesca. Non solo il numero delle ore disciplinari ma lo stesso impianto contenutistico e metodologico dei nostri studi è basato su di un astratto modello retorico di belle lettere e di corretto esporre. La scusante tipica che gli studi umanistici formino le menti al ragionamento, ed alla riflessione sul passato, che è maestro di vita, non vale più nulla. Se nell’ottocento lo si tollerava era perché il procedere dei mutamenti socio-tecnologico-produttivi era così lento che era possibile segnare il passo con essi. Ma oggi, se la cultura indispensabile deve essere in grado di offrire una prospettiva accettabile di comprensione per il nostro futuro, le idee dei filosofi, degli scrittori, dei poeti non sono più sufficienti. Occorre un impianto culturale di tipo diverso. Non parlo di aumentare il quantitativo delle nozioni scientifiche memorizzate alla stessa stregua di quelle umanistiche, ma di una specifica tipicità di forma mentis scientifica che i docenti della nostra scuola non sono in grado di dare, poiché non la conoscono e/o non la riconoscono come tale. Dato che le facoltà umanistiche offrono pochi sbocchi lavorativi oltre l’insegnamento, e poiché tali posti sono in continua decrescita per il decremento demografico, sarebbe il caso che ci si iscrivesse ad esse per pura passione speculativa, ma non con pretese occupazionali. Se viceversa questo è il nostro obiettivo, occorre comprendere che non esiste oggi un deficit di cultura umanista. È nell’istruzione tecnico-scientifica che il nostro paese è particolarmente carente. In questo paese di avvocaticchi con le loro plaquettes di poesie pubblicate in proprio, dove ogni villaggio ha un assessore alla cultura, che si porta dietro uno stuolo di pittori, scultori, esegeti di Dante, filosofi da bar, esiste un’egemonia della cultura umanistica nei confronti della cultura scientifica. Laureato in discipline umanistiche fa rima con disoccupato. Ad un anno dalla laurea questi i tassi di disoccupazione: Giurisprudenza 24%, Psicologia 18%, Lettere 15 %, Scienze Sociali 14,3%, Lingue 13%. A cinque anni dalla laurea, fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea per economia è 273, per Medicina 398, per Fisica o Informatica 55 per Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265. Studiate pure Lettere e Storia, ma per il vostro piacere personale e la chiacchiera nei salotti, ma non pretendete di essere pagati per questo.
Una generazione di incapaci e mantenuti che ha studiato troppo
Quella dei nati negli anni ’80, è una generazione cavia, travolta da una tempesta di riforme. A far da scudo, i soldi di mamma e papà. Perché i giovani che oggi hanno tra i 24 e i 33 anni hanno fatto ingresso nel mondo dell’università o del lavoro proprio nel momento in cui una nuova riforma lo stava trasformando profondamente. E sempre a loro svantaggio.
Sara nasce nel 1980, si diploma nel 1999. Decide di non proseguire gli studi e cerca lavoro. Di fronte a sé trova le novità del pacchetto Treu del 1997, le prime forme di lavoro flessibile con il lavoro interinale e i primi tirocini senza obbligo di retribuzione. Luigi nasce nel 1981, frequenta il Liceo e si diploma nel 2000. Si iscrive all’Università. Accedendovi si scontra con la riforma del 3+2, introdotta proprio in quell’anno. Marina nasce nel 1982, frequenta l’Università e inizia a cercare lavoro nel 2008. A quel punto è già in vigore la Legge Biagi, con le sue forme di lavoro flessibile, tra contratti a intermittenza e a progetto. Mario nasce nel 1986. Quando finisce l’Università e inizia a lavorare è il 2012. Da questo momento sa che inizierà a maturare una pensione in base ai contributi versati nell’arco di un’intera vita, perché è già in vigore il nuovo sistema contributivo Fornero al posto del vecchio retributivo. La riforma universitaria del 3+2 ha trasformato l’Università in un percorso di navigazione a vista. Ha costretto i docenti a frammentare un percorso quinquennale solido e di lungo respiro in programmi ridotti e congestionati. Ma è soprattutto una riforma che ha mancato il suo obiettivo primario, quello di velocizzare l’ingresso nel mondo del lavoro. La laurea triennale non è facilmente spendibile e i datori di lavoro non gli danno importanza. Dei più giovani tanto se ne occupa la famiglia di origine. Il prezzo è la minore intraprendenza e autonomia dei ragazzi, una svalutazione delle loro capacità e competenze. Questa è la prima generazione rimasta più a lungo delle altre dentro percorsi di formazione, rivelatisi inutili. Sociologi, demografi e accademici si sono accorti tardi della decrescita demografica, lo hanno fatto con la riforma Fornero e il sistema pensionistico contributivo. Nel giro di sessant’anni in Italia il numero dei giovani è diminuito del 27%, in Germania del 5% e in Spagna del 3% mentre è aumentato del 10% e del 19% rispettivamente nel Regno Unito e in Francia. Come è possibile che i giovani che in ogni decennio trascorso dal 1950 hanno guadagnato due centimetri di statura, aggiunto due anni alla speranza di vita e trascorso due anni in più sui banchi di scuola, sia oggi così ininfluente? È la sindrome del ritardo. Ossia il ritardo con cui si entra a pieno titolo nella vita sociale e adulta. Se le coppie si formano tardi e fanno le loro scelte riproduttive a età elevate e con troppa parsimonia, ciò è dovuto a una politica formativa troppo diluita nel tempo, a un’organizzazione della società e del mercato del lavoro che rende più costoso (per le donne) avere figli, a trasferimenti sociali particolarmente esigui per le famiglie, a una politica della casa che ha favorito la proprietà rispetto all’affitto. Incapaci di leggere le trasformazioni cui erano sottoposti, i giovani hanno pensato piuttosto a salvarsi individualmente. E i giovani, sfiduciati verso lo Stato, con una classe dirigente chiusa e corporativa, hanno trovato più facile cercare la solidarietà della famiglia. Cosa avrebbe dovuto restare di loro? La generazione delle tre C: C di confidence, consapevolezza delle proprie capacità; C di connected, perché la rivoluzione tecnologica può fare la differenza, diventando arma positiva per creare informazione, consenso sociale, interazione; C di change, il cambiamento di cui vorrebbero essere parte attiva, loro che di questo Paese si considerano la parte più capace. Cosa resterà? Una generazione di incapaci e mantenuti che ha studiato troppo.
Nel QS University World Ranking (la classifica delle migliori università) La Sapienza di Roma (1^ delle italiane) sta all’80° posto
Nel QS University World Ranking del 2015, la classifica delle migliori università al mondo per settore, nella categoria delle scienze naturali il primo ateneo italiano risulta essere La Sapienza di Roma, all’80° posto, il Politecnico di Milano (86°). L’Università di Bologna, la più antica università del mondo occidentale, la prima ad assegnare il nome di “Universitas” ad una corporazione di studenti ed insegnanti, si classifica solo 204° nella classifica generale delle università.
Per fare un paragone il Politecnico Federale di Zurigo (ETH) è il 6° ateneo al mondo per importanza, il Politecnico Federale di Losanna (EPFL) è 13°.
Negli ultimi dieci anni, i professori universitari sono diminuiti del 22% ed è stato tagliato il 97% dei precari. Le borse di studio negli ultimi tre anni sono state ridotte di circa il 26%, passando da 5.553 a 4.112. Solo nell'ultimo anno si è passati dai 33 mila precari della ricerca a soli 13.400. L’85% dei 13.400 assegnisti odierni non potrà continuare la propria carriera universitaria e più della metà abbandonerà la ricerca senza alcun ammortizzatore sociale. In un decennio, sono andati a lavorare all'estero circa 10mila giovani ricercatori.
Ma il genio italico non è acqua e si è inventato i dottorandi senza borsa di studio. Sono persone che per fare ricerca, e quindi per lavorare, sono costrette a pagare. Ovvero non solo non percepiscono un euro, ma sono tenuti anche a sborsare i soldi della retta universitaria, che è scelta in maniera discrezionale dai singoli atenei.
I giovani neolaureati italiani, che aspirano alla carriera universitaria, nel nostro Paese sembrano non avere futuro.
Sono calate le immatricolazioni, del 23,5%, uno studente su quattro. E poi ce la disoccupazione giovanile frutto di un processo di lungo periodo, figlio dell'incapacità dell'Italia di esserci nei settori delle biotecnologie, del software, della nuova economia digitale.
La mia proposta di riforma della scuola superiore
Parto dal presupposto che non essendo tutti gli allievi potenzialmente equi-dotati, la scuola non può essere una sorta di letto di Procuste. Distinguerei due grandi strade che partono dalla scuola media. Una prima via scolastica vocazionale (ingloberebbe gli attuali licei) che copre le grandi macroaree della conoscenza e del saper fare contemporaneo e traguarda una professionalizzazione universitaria. Si tratterebbe di una scuola a gestione nazionale a numero chiuso (programmabile sulle esigenze che la società ha di laureati) a cui si accede con un esame di ammissione. Una seconda via scolastica che privilegia il saper fare e che mira ad una professionalizzazione diretta (ingloberebbe gli attuali corsi regionali, gli istituti professionali e gli istituti tecnici). Si tratterebbe di una scuola multi - indirizzo a gestione regionale (programmabile sulle esigenze che la regione ha di tecnici).
Per adesso ho sviluppato la prima tipologia.
Vi sono alcune nostalgie scolastiche da abbandonare. La sistematicità storica di proporre i contenuti, l'ansia di esaustività nozionistica, la centralità nazionale, la preminenza del teorico sull'operativo, l'autoreferenzialità immutabile ed immobile del senso dei saperi. La scuola non deve servire alla scuola ma deve servire a capire la vita d'oggi per inserirsi nella società di domani. Ecco quindi la grande mission: far nascere vocazioni per una scelta consapevole dei percorsi universitari futuri. Rilette in questa luce molte delle attuali discipline e gran parte dei programmi oggi in essere, vanno completamente riformati. Cominciamo dalle tempistiche. Eguale spazio temporale per il trasferimento teorico con confini disciplinari sempre meno marcati e ampio spazio operativo ad attività di laboratorio interdisciplinari. Eguale spazio temporale per attività in sede e in stage presso imprese convenzionate. Verifiche di apprendimento davanti a commissioni miste formate da tutor aziendali e docenti.
Durata
4 anni
1 Ottobre – 31 Maggio: Scuola e Alternanza Scuola Lavoro
1 Giugno – 31 Luglio: Scuola lavoro
1 Agosto - 31 Agosto: Vacanze senza compiti e lavoro.
1 - 30 Settembre: Sintesi Riepilogativa ed Esposizione dei lavori svolti
Valutazione per ammissioni alla classe superiore
Esposizione e discussione dei lavori svolti davanti ad una Commissione Paritetica formata da tutor aziendali e docenti di area
Orario settimanale
30 ore su 5 giorni dal lunedì al venerdì di 6 ore cadauno
in alternanza ore 9-12 teoria ore 14-17 laboratorio (per ottimizzare gli spazi didattici)
in alternanza 4 g a scuola 1 g al lavoro (per favorire il placement nelle imprese)
Aree e discipline in scuola
Area Umanistica e delle Scienze Sociali
Storia ed Arte 1 ora/sett,
Filosofia e Sociologia 1 ora/sett,
Letteratura Internazionale in Lingua Inglese 1 ora/sett
Laboratorio di area 3 ore/sett
Area del Diritto e delle Discipline Economiche
Diritto 1 ora/sett,
Geografia Economica Politica 1 ora/sett,
Economia Applicata in Lingua Inglese 1 ora/sett
Laboratorio di area 3 ore/sett
Area delle Scienze Teoriche ed Applicate
Matematica e Disegno 1 ora/sett,
Fisica 1 ora/sett,
Scienze in Lingua Inglese 1 ora/sett
Laboratorio di area 3 ore/sett
Area delle Scienze Informatiche e Digitali
Informatica in Lingua Inglese 1 ora/sett
Laboratorio di area 5 ora/sett
Area professionalizzante in azienda
Il tipo di placement in impresa varia ogni anno per coprire le 4 aree e prosegue in Giugno e Luglio con full immersion di 30 ore/sett per preparare il tema di esposizione e discussione di Settembre.
LA SCUOLA INUTILE
In queste 130 pagine sono raccolti e sistematizzati circa 80 post pubblicati sul blog LA VERITA' PER FAVORE (https://civicnessitalia.blogspot.com/) sui temi della disoccupazione, della GIG Economy e della scuola. Oggi la disoccupazione giovanile è un tema cruciale della società e dell'economia. Fa da contraltare a ciò una nuova economia dei "lavoretti" provvisori a cui i giovani sono costretti e la cui dimensione, in continua crescita, ha finito per creare una sorta di economia parallela, legata in particolare al web, la cosiddetta GIG Economy. Ma quali sono le cause di tutto ciò? Una in particolare viene esaminata più a fondo: la crescente inadeguatezza del sistema formativo. Un mondo a sé stante, elefantiaco ed autoreferenziale, costosissimo e dannoso, praticamente irriformabile, che continua ad insegnare saperi obsoleti secondo una logica prenovecentesca che non permette la comprensione della realtà che ci circonda e che non fornisce conoscenze ed abilità utili per essere inseriti nel mondo del lavoro. Questa è la scuola inutile. Come può cambiare? Viene presentata la traccia di un radicale riforma, contenutistica e metodologica, in cui imparare e lavorare non sono più visti come termini in contrasto ed in successione, ma come due facce contemporanee della stessa medaglia.
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